Tempo variabile: la fine del mondo secondo Jenny Offill

Lizzie è una bibliotecaria, ha un marito, un figlio, un cane, si prende cura di un fratello con problemi di dipendenze, di un tassista che ha perso la clientela, di una madre molto religiosa e della corrispondenza del podcast della sua amica Sylvia,“Cascasse il mondo”. Il tema del podcast, ma anche del romanzo di Jenny Offill di cui Lizzie è protagonista, Tempo Variabile (NN editore, tradotto da Gioia Guerzoni), è il costante senso di disastro imminente innescato dal cambiamento climatico. «Il lavoro va bene, ma mi sa che siamo vicini alla fine del mondo». È una frase che Offill inserisce in un ricordo di Lizzie, ma è anche una sintesi del mondo che voleva rappresentare; poi è arrivato il COVID-19 e nemmeno il lavoro sta andando più tanto bene.

Un romanzo, quello di Offill, composto da brevi paragrafi in una scrittura solo apparentemente istintiva, scelta di molte autrici contemporanee: Bye Bye Vitamine di Rachel Khong, Acqua salata di Jessica Andrews, entrambe NN editore, solo per citarne alcune. A tirare una linea immaginaria si può dedurre che nella letteratura anglosassone abbiamo da un lato la prosa abbondante di Rachel Cusk e quella poetica di Ocean Vuong, dall’altro Jenny Offill che punta all’essenziale pur rimanendo impegnata a raccontare la paura e accendere luci sulla crisi climatica che resterà con noi per sempre. In Tempo variabile, allora, ci sono pensieri frammentati, estratti di conversazioni, ricordi brevissimi e riflessioni ponderate per un risultato finale a volte rassicurante, perché regala l’illusione di avere un certo potere nelle dinamiche contemporanee, altre volte più angosciante. In molti incontri con i lettori, Offill spiega che questa sintesi è frutto di un lungo lavoro di ricerca e scrematura (per la stesura di Tempo Variabile ci sono voluti sei anni) e di una scelta stilistica precisa: ricreare quell’oscillazione di pensieri di cui tutti siamo “colpevoli”, tra percezione della catastrofe alle porte e la pigrizia mentale dell’andrà tutto bene pur nell’inazione, che si manifesta quando nulla sta toccando la propria vita. C’è ancora tempo, ci si ripete, ma sappiamo già che è un inganno. Tra cambiamento climatico, l’elezione di Trump, le complesse dinamiche familiari, Offill mette a fuoco la paura, la legittima e la eleva, rendendola una compagna fedele dei personaggi. Che si tratti delle vicende di Lizzie o delle strampalate e-mail che riceve per conto del podcast, la morale è che come esseri umani siamo fallibili, inadeguati, ma tutto sommato convinti che ci sia una soluzione. La protagonista sguazza in questa paura collettiva con i suoi pensieri ad alta frequenza, rimugina continuamente, a volte proiettando le sue paure all’esterno; agisce poco Lizzie, anche se, quando lo fa, prova un commovente senso di leggerezza e realizzazione personale.

Una volta la tristezza era considerata uno dei peccati mortali ma in seguito era stata sostituita dall’ignavia. (Due punti a sfavore per me).

La sua crisi esistenziale viene mitigata a volte dalla buona condotta del fratello, dall’aver evitato una conoscente sgradevole, oppure dall’aver carpito una nuova informazione utile per una futura sopravvivenza in ambiente ostile. Sono i piccoli trionfi quotidiani, uguali ai nostri in tempo di pandemia. Paura, ansia, vergogna e senso di colpa sono le sostanze di cui è fatta Lizzie, che pure si attrezza e resiste al disastro intorno a lei spinta dall’urgenza di essere «una persona quasi decente» pur funestata dai sensi di colpa.

Non so cosa c’è che non va in me. A quanto pare non riesco a smettere di prendere le decisioni sbagliate. La cosa strana è che non mi colgono alla sprovvista, le vedo arrivare da lontano.

Un personaggio alle soglie di un «caos imminente», divorata dalla paura dell’inutilità, dell’essere senza scopo, una caratteristica di questa contemporaneità, saremmo tentati di dire, ma non dovremmo essere così superbi, le «ambizioni disattese» dell’individuo sono sempre esistite.

Il romanzo di Jenny Offill è stato definito politico (da Kristin Iversen su LitHub), pre-apocalittico (Joanna Scutts sul Guardian) e autofiction, nel tentativo dell’autrice di registrare le reazioni al cambiamento climatico, l’attuale politica americana e il senso di pericolo che ne consegue.

Senza proporre particolari soluzioni, come potrebbe del resto, Offill aggancia al romanzo un progetto parallelo, il sito web “Obligatory Note of Hope”, una risorsa collettiva per promuovere dialogo e confronto sul climate change e svegliare le coscienze. E Lizzie stessa, pur nel suo rumoroso rimuginare interiore, sembrerebbe la candidata ideale con cui confrontarsi, tanto ripiegata su sé stessa, quanto impegnata a far sì che le vite altrui non vadano in frantumi in questo sentimento comune di disfatta generale, o slowmotion disaster feeling come lo ha definito Offill in uno dei suoi ultimi eventi pubblici. Sono i primi di marzo, Offill è a Washington, saluta il pubblico di lettori, scherza sul lavaggio accurato delle mani e su come cantare almeno due volte “Happy birthday”, mentre tutto il mondo, tranne gli USA, si preparava alla pandemia con un lockdown feroce e un distanziamento fisico che la nostra generazione non dimenticherà. Eppure Tempo variabile si è ritrovato ad avere ancora più ragion d’essere nella pandemia che si è sovrapposta d’improvviso alla crisi climatica. Alcuni hanno gioito di come la natura abbia recuperato, pare, i suoi spazi, per il traffico aereo quasi azzerato, il minore inquinamento, ma persino Lizzie saprebbe dirvi che sono palliativi e forse una soluzione non c’è davvero in questo mondo in cui guanti e mascherine monouso vengono abbandonati per strada, a ribadire che dell’inquinamento ci interessa poco. Non solo la pandemia ha spostato l’urgenza del cambiamento climatico, ma pure nel lockdown prevale ancora il qui e ora, al domani ci pensiamo un altro giorno. Ma quello che Offill fa e che rende Tempo variabile un caso letterario, è il tentativo di dare risposta ad una domanda cruciale: cosa succede quando si è sempre meno capaci di distogliere lo sguardo dai problemi? Ci si attrezza come si può con nozioni inutili, ma sorprendenti, come quella della scatoletta di tonno che diventa candela, senza mai tralasciare l’elemento comico.

Giuro che le lettere dei fricchettoni sono cento volte più noiose di quelle di chi si prepara alla fine del mondo. Parlano solo di wc compostanti e risparmio idrico e macchine elettriche e di come vivere senza gravare sul pianeta sempre guardando almeno sette generazioni più avanti. «Gli ambientalisti sono così pesanti» dico a Sylvia. «Lo so, lo so » fa lei.

Leggere Tempo variabile offre l’occasione letteraria di ampliare lo spettro delle nostre urgenze personali, buona pratica che funziona pure in pandemia quando ci dimentichiamo che tutto sommato la paura, per quanto spaventosa, ci protegge e attiva sin dalla notte dei tempi.

Dopo ogni catastrofe inizia un periodo in cui quasi tutti si aggirano cercando di capire se si è trattato davvero di una catastrofe. Gli psicologi specializzati in catastrofi usano il termine “vagare” per descrivere le azioni automatiche della maggioranza delle persone quando si trovano in una situazione nuova e spaventosa.

Insomma, buona fortuna a noi che vagheremo in un presente a lungo incerto, nella speranza che almeno Tempo variabile valga come monito per le generazioni future.

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