Tenet e l’ossessione di Christopher Nolan per il tempo

Ci sono varie ragioni per cui Tenet è da considerarsi il film evento del 2020, a prescindere dalla controversia “Nolan sì-Nolan no” su cui i cinefili stanno dibattendo da tanto, troppo tempo, tra alterigia spocchiosa, ammirazione sul limite dello spietato fanatismo e accostamenti grossolani all’arte di Stanley Kubrick. La ragione più banale è ovviamente quella che guarda a Tenet come il titolo che ha “salvato il cinema” nell’era del Covid-19, ma ce n’è una molto più viscerale che si ramifica direttamente dal regista stesso: Tenet è il compendio definitivo dell’ossessione nolaniana per il tempo, un testamento tematico, un punto di arrivo irreversibile. La carriera di Nolan, qualsiasi strada intraprenda, non sarà più la stessa dopo un così estremo dispiego di energie e logica creatività. Siamo dalle parti del film di spionaggio alla James Bond, e un agente della CIA senza nome (John David Washington) viene ingaggiato per evitare un conflitto di proporzioni mondiali, dietro il quale tramano alcuni misteriosi nemici provenienti dal futuro e il russo Andrei Sator (Kenneth Branagh).

Proseguendo sul solco del thriller fantascientifico alla Inception, Tenet ha in comune con Memento il concept del tempo che scorre in maniera non lineare per trasmettere il senso di urgenza, mentre da Dunkirk riprende la raffinata intuizione di non mostrare il nemico. La cifra autoriale e industriale di Nolan non bada a spese, con oltre 200 milioni di dollari spesi per giustificare l’impressionante grandeur visiva di scene d’azione prive di trucchetti digitali, perfettamente leggibili grazie a un montaggio ritmato ma mai confuso. I synth martellanti e invadenti di Ludwig Göransson non fanno rimpiangere l’assenza del collaboratore storico di Nolan, ovvero Hans Zimmer, infiltrandosi tra effetti sonori e splendide riprese in IMAX e 70mm per dilatarne la spettacolarità.

Già a partire dal titolo palindromo, Tenet mette in fila una serie di scatole cinesi pseudo-scientifiche che sfidano lo spettatore a intuire snodi narrativi e ruoli in maniera a volte un po’ troppo macchinosa ma sempre intrigante. Ovviamente è possibile essere portati ad accusare di autocompiacimento i giochi cerebrali su cui Nolan si accartoccia, ma è impossibile negare come ancora una volta il regista inglese si sia fatto portavoce di un cinema popolare che solletica il nervo ottico mentre lancia spunti che non facciano dello spettatore cinematografico un fruitore passivo dell’arte. Nolan riconferma inoltre il suo buon rapporto con gli attori, convincenti al punto giusto pur non regalando picchi di rilievo.

Dunque, Tenet è uno spettacolo al cardiopalma orchestrato da un regista che ha voluto giocare con il suo tema esistenziale preferito nella maniera più creativa e folle possibile, lontanissima dal minimalismo viscerale con cui Dunkirk intrecciava le riflessioni morali con i piani temporali per dare linearità a una narrazione che lineare non era. Un protagonista assai bidimensionale (Washington), che non ha nulla della potente caratterizzazione noir del Leonardo DiCaprio di Inception o del Batman di Christian Bale, rischia di privare le riflessioni etiche del film di buona parte della loro forza, ma in fondo va bene così. Non c’è tempo per ridondanze, né c’è posto per i dilemmi interiori. Tutto ciò che conta è la soluzione del problema, l’eterno ritorno per scongiurare gli errori del mondo.

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