The Flaming Lips – King’s Mouth

Vi ricordate i The Flaming Lips? Quei musicisti fuori di testa che riempivano i palchi di coriandoli e palloncini giganti. Quelli che si vestono da animali. Gli statunitensi che hanno inaugurato il loro essere provocatori semplicemente nascendo, visto che i primi strumenti musicali li ha rubati in una chiesa il leader Wayne Coyne. Ecco, i The Flaming Lips sono tornati con King’s Mouth e non sono cambiati di una virgola.

A un anno dalla raccolta Greatest Hits Vol. 1, a due da Oczy Mlody e al ventiseiesimo anno di attività, Coyne e soci tornano con un nuovo disco e con una nuova provocazione. Il disco infatti uscirà solo il 19 luglio ma, in onore del Record Store Day, il nuovo album è stato già ascoltato dai fan più accaniti del gruppo in anteprima. Naturalmente noi siamo tra quelli.

Se c’è un qualcosa che fa dei Flaming Lips un gruppo davvero straordinario è la capacità di trascendere sempre e comunque. Trascendere i generi senza farsi mai incasellare in una categoria e trascendere la forma non fossilizzandosi mai nel solo spartito musicale. Che musica è quella che suonano i Flaming Lips? Non è rock, non è pop, non è prog, a volte è solo suonata, a volte cantata o parlata (come in questo ultimo album).

King’s Mouth è probabilmente il coronamento della vena sperimentale dei The Flaming Lips per molte ragioni. Innanzitutto, l’album è da considerarsi un tutt’uno con l’installazione artistica di Coyne che, di fatto, viene sonorizzata dalla musica dell’album e che, in qualche modo, siamo sicuri verrà portata sui palchi (e non vediamo l’ora di ammirare il risultato finale di ciò che si intravede dal suo profilo instagram). Ma non solo, King’s Mouth è anche un libro King’s Mouth: Immerse Heap Trip Fantasy Experience scritto dal leader. Rompere tutti i muri che separano le forme artistiche per dar vita a qualcosa di totalmente nuovo e inaspettato.

La stessa tendenza da bulldozer si registra a proposito della musica incisa dai Flaming Lips, in particolare nel loro nuovo lavoro. King’s Mouth è un disco che non conosce generi e spiazza con una libertà da bambino giocoso tra rock, soundtrack à la Hans Zimmer, pop, dance. Un disco che ci inebria e sembra non volerci dare alcun punto di riferimento fatta eccezione per un appiglio. In quasi tutti i pezzi che compongono la nuova fatica dei The Flaming Lips troviamo la voce narrante di Mick Jones dei Clash che ci parla creando una sorta di ponte all’interno del caos ordinato dei ragazzi-non-più-ragazzi di Oklahoma City.

L’intro We Don’t Know How and We Don’t Know Why, il cui tema viene rielaborato anche in altri pezzi dell’album, serve quasi a trasportarci in una tana del bianconiglio. 1 minuto e 34 di atmosfere sospese e fiabesche che ci mostrano la via per il mondo dei Flaming Lips.

Tutto l’album è, però, inframezzato da sospensioni eteree della musica con piccoli brani da 1 minuto e poco più e che sembrano chiudere e aprire i capitoli della favola che Coyne vuole raccontarci prima di farci addormentare. Soprattutto negli intermezzi sembra essere chiaro come il disco nasca come colonna sonora, come narrazione che necessita, di tanto in tanto, di essere sospesa come in Mother Universe. Atmosfere eteree che ritroviamo anche in The Sparrow, un brano che sembra non poterci sorprendere fino a quando un repentino cambio al secondo minuto ci conduce in un labirinto strumentale che ricorda tanto i miei amati BadBadNotGood. Il brano crea delle dinamiche meravigliose e degli sbalzi che testimoniano la capacità di comporre musica del gruppo. Giant Baby è una ballad a tutti gli effetti senza essere in alcun modo standardizzata come la meravigliosa How Many Times scandita da un ticchettio incessante e da una voce distorta che ripete in loop “One, two, three, four, five”.

Proprio quando il disco sembrava aver preso una piega definita, placida e eterea ecco che ritorna lo spirito più rock e innovatore in Feedaloodum Beedle Dot, un pezzo ipnotico e pesante che segna, assieme a Funeral Parade e Dipped in Steel, il momento di spannung della favola. Il lieto fine è annunciato dalla title track (che è una delle migliori dell’album), un mix di presente e passato in cui si comprende quanto ascoltare la musica dei grandi non sia mai un mero atto nostalgico. Quanto è facile poi immaginarsi dei titoli scorrere su sfondo nero mentre si ascolta How Can a Head.

In conclusione, l’epopea narrata dalle note di Coyne e compagnia e dalla voce di Mick Jones fanno di King’s Mouth uno dei dischi più interessanti dell’anno finora. Un concentrato di buona musica, sperimentazione e, semplicemente, di arte allo stato puro. Per tutti quelli che non hanno potuto ascoltare l’album, vi auguro che l’attesa non sia troppo lunga. Nel frattempo, preparate il cuscino e rimboccate le coperte, la favola sta per iniziare.

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