The Flaming Lips – ‘With A Little Help From My Fwends’

Quando si parla di musica, ci sono due cose che possono diventare particolarmente pericolose: i tribute album e gli elogi. Correrò il rischio.

Era già successo nel 2009 con The Dark Side Of The Moon, nel 2012 con In The Court Of The Crimson King e nel 2013 con il self-titled degli Stone Roses. Dopo annunci in largo anticipo, apparizioni e sparizioni da YouTube, un illogico e più o meno correlato video sulla contesa del cervello di Kennedy che conterrebbe la formula originale dell’LSD, il 28 ottobre prossimo i Flaming Lips pubblicheranno ufficialmente (mentre è già disponibile in streaming, qui l’anteprimaun nuovo remake, quello di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.

Mettere le mani su dischi che hanno assunto lo status di entità astrali appare sempre un po’ come un atto di profanazione o estrema presunzione e porta spesso a nient’altro che ad un rifacimento banale e noioso. Eppure sono convinta che i Flaming Lips, dopo oltre trent’anni di carriera all’insegna della psichedelia, siano folli e audaci abbastanza da poter agire di diritto.

Strutturalmente non c’è stata nessuna intenzione di reinventare l’album, dal momento che si segue una semplice copertura traccia per traccia e la durata del disco è aumentata di soli dodici minuti rispetto all’originale (questo a causa di registrazioni e noises utilizzati per legare le canzoni tra loro). Il sound, invece, ha preso senza indugio quel cammino insidioso che si snoda tra irriverenza e rispetto, stravolgimento e aderenza, storpiatura e abbellimento.

L’apertura meravigliosamente incasinata sulle note di ‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band’ presenta alla perfezione la disordinata paletta di colori acidi e luccicosi che rivestono l’intero release. Non posso fare a meno di pensare, però, che il brano che dà il titolo al tribute sia di quelli costruiti meglio, grazie anche all’inserimento delle voci degli Autumn Defense e delle percussioni di Black Pusaka Brian Chippendale.

Personalmente, poi, nonostante sia (già!) stato criticato, trovo che il prodotto dell’incontro tra Coyne, Miss Bangerz (la cui presenza ha a tutti gli effetti attirato fin troppa attenzione) e Moby sia oltremodo soddisfacente. La prima volta che l’ho ascoltato ero diretta all’università e ricordo di aver pensato «Cazzo, non posso fare l’esame così fatta». Mi rendo conto che potrebbe sembrare preoccupante (soprattutto perché non mi faccio nemmeno), ma nel giro di una frazione di secondo sono passata dal pensare di avere un problema al realizzare che stavo solo ascoltando un bel pezzo, esplosivo e potente. Se dovessi criticarne qualcosa, punterei sull’eccessiva lunghezza.

Tra i brani che preferisco figura ‘Being for the Benefit of Mr. Kite’, che grazie alla voce del buon vecchio Maynard James Keenan e alle note insistenti di basso crea un’atmosfera fumosa e suburban, tra lattine di birra sul marciapiede e qualcosa andato storto. ‘Good Morning Good Morning’ torna alla confusione vibrante dell’opening act, seguita da ‘Sgt. Pepper’s (Reprise)’ ad un ritmo funky e groovy che era mancato fino a questo momento. Forse una certa delusione arriva con il ritorno della Cyrus in ‘A Day in the Life’, chiusura a mio parere troppo debole per sostenere la difformità e scompostezza dell’intero tribute.

Al progetto hanno collaborato in totale una trentina di artisti più o meno scontati, tra cui, oltre a quelli già citati, Dr. Dog, My Morning JacketFoxygenMorgan Delt, Grace Potter, Zorch, Tegan and SaraChuck Inglish, Sunbears, Ben Goldwasser, Stardeath & White Dwarves.

È fuori dubbio che i puristi disprezzeranno questa proposta e, d’altra parte, fare quello che i Beatles hanno fatto nel ’67 è quasi impossibile (ma mai dire mai). Allo stesso tempo, però, credo che i Flaming Lips abbiano dimostrato come si possano ancora realizzare album in grado di stupire, nel bene o nel male, partendo comunque dall’enorme e spesso insormontabile difficoltà di base che l’approccio con una pietra miliare della musica comporta.

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