The Grand Budapest Hotel

Mi hanno detto che le recensione dei film non si fanno con le storie personali, ma poi il cinema è il racconto di una storia personale anche quando porti sullo schermo un romanzo o i diari di Stefan Zweig, allora non ha molto senso non dire che prima di andare a vedere The Grand Budapest Hotel mi sono bevuto una birra, che ho schifato gli hipster parigini e che l’americano che stava dietro di me ha trasformato la mia poltrona da quella di un cinema a una massaggiante. Ma è Wes Anderson e mette d’accordo tutti, anche con le sue storie improbabili, i personaggi che non sono mai cattivi né buoni del tutto e arrivi a trovare empatia per arrivisti come M. Gustave, il concierge dell’albergo pieno di amanti, per parole sue, vecchie, ricche, sole e bionde, piuttosto che per Dmitri. Sullo sfondo una vecchia Europa, fra la guerra e gli intrighi di palazzo, il tipico stile registico di Wes Anderson e la sottigliezza con cui racconta le sue storie. Dietro agli eventi, complice per contingenza, il piccolo Lobby boy, unico vero protagonista, come a dirci che non importa quello che fai perché, alla fine, c’è possibilità per tutti.

The Grand Budapest Hotel nasce da un libro ma, poi, si scrive da solo. La narrazione è una scatola cinese, in cui ogni storia ne contiene un’altra. Il probabile Stefan Zweig anziano introduce il suo arrivo al Budapest Hotel in gioventù e l’apparizione di Zero Moustafa crea il presupposto per narrare le gesta di M. Gustave, il centro di tutte le azioni. Con uno sviluppo tipicamente da prosa il film diventa la narrazione per immagini di successi e cadute dei vari personaggi, tutti accomunati dall’arrendevole impredivibilità del caso. Sarà Zero il gran maestro di questa orchestrazione, dietro cui, probabilmente lo stesso Wes Anderson si nasconde volutamente, nel concepire la sua opera come una commedia drammatica in cui l’ironia non è un espediente per allentare la tensione ma un modo per ridere dell’incompresibilità degli altri.

Wes Anderson racconta ancora una storia famigliare quando di famiglie non ce n’è traccia, c’è un albergo, degli amici e gli eventi che li uniscono. Ci sono protagonisti più protagonisti di altri, perché la loro vita è più attiva, ci sono comparse che poi rimangono i protagonisti solo della propria. E, come dare torto a questa teoria sentimentale degli eventi, che non condanna mai nessuno e lascia allo spettatore la facoltà di giudizio. La semplicità è l’arma a doppio taglio di un’ironia tipicamente americana, in cui se non c’è indagine psicologica è perché già quello che uno rappresenta è abbastanza per definirlo. Non serve essere ricchi per capire di arte, non basta essere adorati dalle vecchie più influenti per sentirsi amati, perchè, comunque, puoi diventare ricco vendendo quadri o ritrovarti da solo a mangiare. Ognuno ha la sua stanzina dentro al Budapest Hotel in cui si ritrova solo. Il racconto che all’apparenza ti fa ridere ed esultare nasconde sempre quella velata solitudine che Wes Anderson fa risalire al distacco doloroso dall’infanzia spensierata dei bambini che scappano per amore ma che, poi, si ritrovano a fare i conti con il mondo, senza essere veramente cresciuti. Questo è M. Gustave e le sue anziane amanti alla ricerca di piaceri e spensieratezza, un tortuoso percorso per allontanarsi dalla fine che aspetta, presto o tardi, tutti. Un po’ come il Budapest Hotel, ancora pieno dello splendore del passato, che trova nel ricordo l’unico modo per vivere ancora e, nella sua decadenza, un gusto antico del valore delle cose. Il microcosmo rappresentato da M. Gustave tra le due guerre e la battaglia tragicomica per il denaro sono la vera eredità lasciata dal progresso e dalla velocità con cui il mondo ha accelerato. Lasciando vuoto il Budapest Hotel e accogliendo, appunto, solo la solitudine moderna e matura.

Perché alla fine siamo sempre noi, quelli che non fanno la storia ma che sono soltanto accanto ai grandi, a portare valigie e a cercare di imparare tutto quello che ci è possibile dal M. Gustave che ci capita di conoscere. Wes Anderson sembra dire che a tutti spetta il compito di mantenere il proprio personale Budapest Hotel, e i M. Gustave, perché poi ne rimarrà soltanto l’air de Panache. Il profumo che si attacca a ogni passaggio importante nelle stanze segrete della vita.


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