The National – Sleep Well Beast

Corrispondenze. Quando Arthur Rimbaud colora le vocali, per quanto possa sembrare solo un’operazione di stile arbitraria, in realtà sta comunicando con l’universo, come prima di lui aveva fatto già Baudelaire raccontando l’uomo che attraversa “una foresta di simboli“. Che c’entra tutto questo con il nuovo album dei National? Basta dare un’occhiata alla copertina di Sleep Well Beast, così tetra, spettrale: un artwork che potremmo incontrare sotto le forme del mondo lì fuori, il buio di una casa abbandonata in periferia, o una colata d’asfalto gettata a casaccio a terra.

Corrispondenza è la capacità che hanno i National di creare mondi, e connessioni tra mondi – tra la musica, diretta, a volte catartica, e gli immaginari dentro cui ci muoviamo. Non tutte le band riescono a farlo. Complice l’ossessione contemporanea del marketing tuttavia, c’è ancora chi riesce a smuovere corrispondenze, a evocare i propri suoni anche grazie ai dettagli di un album, e insieme quella curiosità che altrimenti avremmo gettato via. È complesso, certo: come colorare le vocali. Apparentemente semplice, solo apparentemente.

Sleep Well Beast si è annunciato così: con le grandi attese che ormai circondano inevitabilmente Matt Berninger e soci. L’aspettativa media del pubblico dei National resta quella di abbandonarsi, preparasi a essere annichiliti dalla nuova droga che ci aspetta sotto forma d’album. Nuove parole da ripetere ossessive, con il sussurro caldo della voce di Berninger, nuovi suoni che si attaccano al cervello, e non lo lasciano, come uno spirito maligno dai tratti benigni. Una vaga malinconia e cupezza che ci riporta a terra, ma ci culla dolcemente. Il crogiolarsi malauguratamente dentro le proprie piccole ossessioni, accompagnati da una bottiglia di qualcosa ( – favorisca del vino), per poi rinvigorirsi dentro – fin dentro lo spirito – e riemergere, qui nel XXI secolo, anno 2017, era degli eccessi di plastica.

È difficile al settimo album tenere viva la fiamma, la curiosità e l’aspettativa di quel pubblico. “I’m gonna keep you in love with me for a while”, sussurra Matt Berninger in Dark Side of Gym, soffusa ballata dedicata alla moglie Carrie Bessner, editor del New Yorker e co-autrice dei testi di Sleep Well Beast. Possiamo dire che se il nuovo album dei National è venuto fuori anche da un gioco terapeutico di coppia per ritrovare l’ardore degli inizi (almeno per quanto riguarda i testi), lo stesso ardore potrà ritrovarlo il pubblico, perché questo disco suona malinconicamente rock (con incursioni di elettronica), come i National ci hanno abituato sin dagli esordi. C’è chi ne ha addirittura parlato come del disco rock dei National che aspettavamo dai tempi di Boxer. Il disco post-obamiano che ritrova la verve di Mr. November. Anche se quel periodo più post-punk dei National oggi ha il retrogusto di una nuova declinazione dei suoni in chiave elettronica.

Turtleneck  (vera cavalcata rock del disco) e Day I Die sono solo un esempio di questo ritmo incalzante.

“The day I die, day I die, where will we be?”

Dopo due album (High Violent e – soprattutto – Trouble Will Find Me) che avevano un sapore orchestralmente più corposo – ma che finivano lo stesso per provocare una maniacale dipendenza sul nostro cervello, il pericolo era quello di ripetersi. Per una band che è diventata cult nel corso di quasi due decenni, c’era il rischio di cadere in una certa spirale alla U2 e “invecchiare” il suono, perché giocare sul filo del pop è pericoloso e arduo: si finisce sempre per copiarsi e citarsi. Per fortuna Sleep Well Beast scongiura questo pericolo e va oltre, anche se bisogna dirlo: suona proprio come un disco dei National, anche nei suoi tormentoni più decisi come Day I Die. L’aggiunta di elementi elettronici – che hanno fatto gridare al paragone (ingiusto) con i Radiohead – non cambia la natura del sound corposo a cui la band dell’Ohio trapiantata a New York ci ha abituato. Ancora una volta siamo in viaggio dentro le ossessioni di Berninger, nei suoi shitty thoughts, nei suoni dipinti dai fratelli Dessner e dalla batteria – ormai diventata stilema – di Devendorf.

In un’intervista al Guardian la band americana ha raccontato la genesi delle canzoni (e dei dischi) dei National: Alligator, Boxer, High Violet sono nati nel garage-giardino di Aaron Dessner, con un Matt Berninger nel ruolo del leggermente ubriaco che ogni tanto appare e aggiunge le parole. “A volte uso l’erba, a volte l’alcol”, ha detto in proposito del processo creativo lo stesso Berninger, aggiungendo che si tratta di un processo lento (e non potevamo immaginare certamente ritmi diversi da quelli slow), “sono un romantico, un ottimista, ma mi piace anche sbucciare la cipolla sulle parti miserabili del mio cervello”.

È l’effetto marcio e doloroso che hanno già tirato fuori dai nostri cervelli i primi singoli, come Guilty Party, con quel piano che si fonde a beat elettronici che racconta questa fiction dei sentimenti che si combatte tra Berninger e la moglie. Uno dei pezzi più forti e suggestivi del disco, forse una delle loro ricerche sonore più innovative. Già candidato a conficcarsi nel cervello.

“I’m walking around like I was the one who found dead John Cheever”

“Sono felicemente sposato, ma è difficile, il matrimonio è difficile e io e mia moglie stiamo scrivendo i testi insieme sulla nostra battaglia: è complesso raccontarla, ma sta salvando il nostro matrimonio”, aveva detto Berninger in proposito del nuovo album qualche tempo fa. Se Guilty Party è quasi un canto di espiazione, Carin at the Liquor Store è una ballata soffice di commemorazione in cui le note del piano ci deliziano: siamo inseguiti dal fantasma di John Cheever e ci aggiriamo in una New York estemporanea – potrebbe essere qualsiasi città del mondo, in un’altra epoca, dove il passato di Berninger e compagna insegue anche noi. Tutto questo ci riporta alla mente il Matt che sussurrava “I tell you miserable things after you are asleep” in Conversation 16 (cfr. High Violet), e che ora sembra invece invocare la luce in Walk It Back, “so don’t go dark on me, it’s all alright / I’ll need you light”, in un tortuoso viaggio dentro il disagio del tempo che passa, della noia, e di cosa siamo disposti a perdere.

Dormi bene bestia, stai a bada, già da Nobody Else Will Be There – pezzo d’attacco dell’album – è tutto chiaro nella sua oscurità. – Possiamo solo andare a casa?, si chiede Berninger, non c’è altro da fare. È chiaro che saremo cullati dal pianoforte, per tutto il disco, è chiaro che finiremo dentro le frustrazioni umane, i “pensieri di merda”, i sogni, i ricordi, e i dèmoni, è chiaro che tutto questo sarà un delitto che si compie con dolcezza – come riusciva a fare lo slowcore nei Novanta. Uccidere dolcemente. E insieme a questa maledizione, c’è una forza in questo disco che racconta l’epoca in cui siamo compromessi. The System Only Dreams in Total Darkness è evocativa in questo senso, con i suoi ritmi scuri e le sue rivelazioni terribili: “We said we’d only die of lonely secrets”.

Ancora una volta i National riescono a narrare le apocalissi che ci portiamo dentro. E lo fanno senza rinunciare al rock, alla larga dal rifugio semplice delle scorciatoie contemporanee. Mettono la bestia a dormire, ma le ossessioni di questa bestia non si placano, sono lì che aleggiano su di noi e sulla realtà di tutti i giorni. È questo il piccolo miracolo che riesce a fare un disco come Sleep Well Beast: affondare e colpire, grazie alle eterne corrispondenze di musica, parole, e malattie contemporanee. Ed è per questo che riesce a crogiolarci, grazie alle sue amarezze, ai suoi suoni caldi e alle sue sconfinate paure. Quando la musica diventa la colonna sonora di un’epoca ha vinto. Gli LCD Soundsystem hanno narrato l’edizione contemporanea del grande sogno americano con il nuovo album, i National addolciscono quel sogno. Fa niente se dovrà servire tanto vino per riuscirci.

Ma c’è un messaggio di speranza in agguato: “I’ll still destroy you someday, sleep well beast. You as well beast.”

Sleep Well Beast esce venerdì 8 Settembre per 4AD

 

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