The Raconteurs – Help Us Stranger

Per parlare di Help Us Stranger potrebbe essere utile premettere che ascolterei con interesse anche dell’afro trap se mi dicessero che, da qualche parte, a tirare i fili c’è Jack White. Non solo quindi non ho nessun particolare tornaconto nello schierarmi dalla parte di chi non ha apprezzato il nuovo lavoro dei The Raconteurs ma mi si spezza proprio il cuore a doverlo ammettere. C’è un momento però in cui bisogna mettere da parte i sentimentalismi, essere onesti con sé stessi e guardare in faccia la realtà. In questo caso la realtà è che se i The Raconteurs non vantassero i nomi di White e Benson in formazione non avrei superato la metà del disco (il che sarebbe stato un peccato perché da qualche parte tra il settimo e l’ottavo pezzo inizia a riprendersi). Ma andiamo con ordine.

Help Us Stranger arriva dopo undici anni (u n d i c i  a n n i) da Consolers of the Lonely e ben tredici dal precedente Broken Boy Soldiers che ci ha regalato uno di quei pezzoni che sfido chiunque sia stato adolescente intorno al 2006 a non ricordare; sto ovviamente parlando di Steady As She Goes che monopolizzava i palinsesti di MTv con la giusta dose di riff distorti e video ignorante.

In generale la band del Michigan è sempre stato uno dei side project di White più amati tanto che l’ex Stripes, ormai solista full time, si porta ancora in giro volentieri i loro pezzi e il pubblico non sembra dispiacersene. Il loro ritorno era quindi molto attesto specialmente dai nostalgici del garage rock à la Seven Nation Army che avevano arricciato il naso davanti a Boarding House Reach, giudicandolo troppo sperimentale.

Help Us Stranger, ha visto la luce il 21 giugno, anticipato da cinque singoli di cui due usciti in contemporanea lo scorso dicembre: Sunday Driver e Now That You’re Gone. Rispettivamente alle posizioni 8 e 9, questi due brani sono senza dubbio tra i migliori dell’album e, nella loro diversità, contengono tutte le sue sfumature. Sunday Driver in particolare consacra Jack White come riff-machine e procede a suon di urletti e chitarre raw super distorte. È un brano incredibilmente catchy che suona come una jam improvvisata e proprio per questo porta con sé un’atmosfera divertente e disimpegnata che convince. Now That You’re Gone al contrario è una ballad sentimentale uscita direttamente dagli anni ’60 che arriva al momento giusto e si fa apprezzare sempre più dopo ogni ascolto.

Andando indietro, il disco si apre con gli ultimi due singoli estratti, Bored and Razed e la quasi title track Help Me Stranger; il primo dopo una partenza in pieno stile Raconteurs guadagna un ritmo incalzante e vibey che ricorda vagamente i Bloc Party di Silent Alarm mentre a seguire un intro nostalgico (termine di cui probabilmente abuserò da qui in poi) anticipa uno dei brani più riusciti dell’album che accontenterà un po’ tutti (ma un po’ di più i fan di Beck).

Only Child è la prima vera nota stonata, un lentone insipido durante il quale non si può fare a meno di pensare alle produzioni più cheesy dei Green Day. In questo pezzo è davvero tutto dimenticabile tanto che quando attacca il successivo si tira un sospiro di sollievo. Don’t Bother Me infatti, pur essendo tutto sommato un brano mediocre, beneficia della sua posizione e forse per questo dopo un po’ riesce anche a insinuarsi sotto la pelle e a farci battere all’unisono cuore e punta dei piedi.

Con Shine The Light On Me continua l’ondata di mediocrità e la struttura simil-musical di beatlesiana memoria non basta a salvarlo e a fargli superare il mio personalissimo test de “lo metterei in playlist?”. Somedays (I Don’t Feel Like Trying) con il suo mood nostalgico-estivo dal sapore 90’s si posiziona qualche gradino più in alto della precedente e anche se rimane incastrata con entrambi i piedi nella rete del già sentito regala qualche passaggio interessante e non mi sento di scartarla del tutto. Al numero 7 arriva Hey Gyp (Dig The Slowness), cover di Donovan e quinto singolo uscito il 10 aprile, che fa outing davanti a chi ancora aveva dubbi sulle influenze musicali del disco.
Da qui in poi, come anticipato, l’album inizia a percorrere il binario giusto e gli ultimi cinque pezzi ci confortano regalandoci una chiusura ascendente. Dopo i primi due singoli già citati, Live a Lie (al numero 10) si stacca nettamente da tutte le precedenti tanto che sembra fuori posto in un album per il resto assolutamente omogeneo. Un garage punk che come Somedays abbandona per un attimo l’America degli anni ‘60/’70 per favorire sonorità più british e 90’s. What’s Yours Is Mine potrebbe essere un orfano di Boarding House Reach e infatti i momenti chitarra-batteria ricalcano quasi in toto la ritmica di Respect Commander. Il risultato è una versione rallentata e stramba di Sixteen Saltines arricchita delle nuove influenze synth pop di White che abbiamo avuto modo di conoscere nel suo ultimo disco. A chiudere Help Us Stranger troviamo Thougts And Prayers, una ballad dreamy che strizza l’occhio al Beck di Blue Moon e ancora una volta sembra continuare il lavoro iniziato con Boarding House Reach, questa volta anche per le tematiche affrontate (And who cares how people live / If living’s all they got? / And who knows how money grows?).

Tra alti e bassi il disco raggiunge e supera la sufficienza ma lo sforzo necessario per apprezzarlo è davvero troppo grande e i pezzi, salvo qualche raro caso, non arrivano. In generale, il grande difetto di Help Us Stranger sembra essere quello di non riuscire a trasformare le influenze 60’s e 70’s in qualcosa di veramente nuovo e per tutta la durata (41 minuti) indugia in un grigio dad rock che non ha niente di nuovo da dire. Per chiudere con una nota positiva, il punto di forza del disco è comunque la sua grande fruibilità che mette d’accordo un po’ tutti e lo rende il sottofondo giusto per un road trip estivo o per fumar bere una birra in compagnia.

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