The Soft Moon – Criminal

I can’t control myself,
it’s the end
so i burn

Così inizia l’ultimo viaggio nei meandri del dolore di Luis Vasquez aka The Soft Moon, che parte con la violenza di Burn, per iniziare un’altra delle sue analisi sonore riguardo a ciò che nell’esistenza fa davvero male.

Nel primo album omonimo al progetto (2010) e in Zeros (2012) ci aveva fatto ascoltare il suono di un cuore che si spezza (ricordiamo tutti, brani come Circles, When it’s Over, It Ends, Crush), dove le sonorità schematiche del post punk, arricchite da quelle distorsioni dark wave, rendevano alla perfezione l’amarezza che rimane in seguito ad una storia triste. Forse ancora c’era qualcosa di soft, in quel Soft Moon: quel tipo narrazione legata ad una componente molto umana, che era sia nel significato, sia nel significante, a causa della scelta di un minor uso di contaminazioni elettroniche.

Elettronica che poi ha preso il sopravvento nel bellissimo Deeper del 2015, poi remixato magistralmente nel 2016 (il remix di Feel dei Ninos du Brasil ne è la dimostrazione), terzo album che ha rappresentato davvero il punto di svolta di questo artista per l’aggiunta anche di liriche che quasi erano assenti in precedenza.

In questo ultimo quarto lavoro, pubblicato per l’importantissima Sacred Bones, porta a compimento ciò che aveva iniziato tre anni fa , dimenticandosi di tutta quella componente 80’s dai caratteristica dei primi due dischi. Il dolore che ci mostra in Criminal, non è lo stesso, è mutato, si è deformato, prendendo vita e pieno controllo del povero Luis. Un dolore lacerante ma più astratto, endemico in un mondo meccanico, freddo e spersonalizzante. Un dolore per il dolore.

The Soft Moon gioca proprio con questo contrasto per raccontare la propria parte più intima attraverso la freddezza di schemi musicali fissi, resi più rigidi dall’elettronica e più strazianti, poche melodie di un synth stonato (It Kills, per esempio). Questo album suona decisamente più brutale e hardcore, dolore che diventa rancore e rabbia con i quali però ha imparato a convivere (Born into this). Un aspetto nuovo è questo lato industrial e spaccone molto anni 90 che traspare, per esempio il brano ILL (ma anche la disumana Choke) potrebbe benissimo essere stato scritto da Reznor e suonato dai NIN, gruppo che è stato sicuramente tra gli ascolti di Vasquez negli ultimi tre anni.

Somiglia parecchio a questi ultimi, soprattutto perché ne recupera la lezione del giocare con l’orecchiabilità, tenendosi sempre sul confine tra ciò che suona bene e ciò che non suona o suona male. Utilizzando effetti tetri e cupi, rende l’idea dell’incubo interiore che vive, creando un album i cui brani potrebbero essere perfetti per la soundtrack di un film su un futuro distopico e crudele o qualcosa tipo un musical su 1984.

Quest’ultimo lavoro non è speciale quanto Deeper, ma è sicuramente interessante sia per la crescita mostrata sia per la capacità di sperimentare e mixare: in Like a Father inserisce una cassa stile techno berlinese; nella bella Give Something unisce un ritmo da campo di battaglia a suoni che potrebbero essere prodotti da un’astronave.

È un trionfo di cemento armato, grigiore, metallo e vecchi televisori che non prendono il segnale. The Soft Moon cambia, procede pur restando cristallizzato nella sua dimensione di dolore e cupa introspezione, di cui amplia l’analisi grazie ad ulteriori sfaccettature.


Qui in palio un ingresso per le date italiane dei The Soft Moon

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