The Subterranean tapes: Must Listen 2016

In passato, ha abitato i corpi di adolescenti, predicatori fondamentalisti, una donna ultracentenaria, che viveva di yogurt e, performance davvero memorabile, un uomo incinto. Ma in questa opera la sua arte è oscura, lenta, difficile e a volte tormentosa. E non è mai il tormento grandioso di nobili immagini e ambienti. È un tormento che ha a che fare con me e con voi. Quello che inizia come solitaria alterità diventa familiare e addirittura personale. Ha a che fare con chi siamo quando non stiamo recitando chi siamo.
(D. DeLillo, Body Art)

Mentre metà dell’anno è ormai passata è arrivato il momento per recuperare quello a cui non abbiamo saputo dare ascolto. I Subterranean Tapes Must Listen sono un piccolo ricordo di quello che ci siamo lasciati alle spalle.

BROTHERS IN LAW, Raise, We Were Never Being Boring

29 Gennaio

Procede impetuoso e senza sosta il cammino dei Brothers in Law che in Raise trovano il giusto equilibrio fra ciò che sono e quello che possono essere. Rispetto all’esordio di Hard Times for Dreamers il suono si libera in maniera positiva dalle drum machine ricorrenti e certe derivazioni dream pop, che li avevano fatti ingiustamente assimilare al filone Be Forest. Non per questo stravolgono lo stile e la carica trasognante delle loro composizioni. Sincera e malinconica, Oh, Sweet Song apre un album pieno di noise e shoegaze, in cui il lo-fi è una questione puramente sentimentale, per come Life Burns ti porta nella tua personale dimensione quotidiana. Il processo di maturazione del quartetto marchigiano si dimostra nel dualismo di Middle of Nowhere/Through the Mirror, capaci di discostarsi fra di loro in maniera sottile e profonda, dove la ripetizione sarebbe potuta essere un prezzo da pagare i Brothers in Law oppongono una vitalità differente, che si rivela nei momenti in cui i singoli strumenti riemergono, appena prima dell’apice dettato dal chorus. Se c’erano dubbi sulle capacità di questo progetto, Raise li toglie tutti.
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MORNING TEA, No Poetry In It, Sherpa Records

24 Febbraio

Un discorso simile a quello dei Brothers in Law va fatto anche per Morning Tea, ma sono tutti saggi a posteriori, mentre No Poetry in It va valutato nella sua immediatezza. È necessario perché si tratta di un immaginario destinato a perdersi non appena Your Hand in Mine si trasforma in Nothing but the Truth, cittadine che raggiungono il loro splendore e poi si mettono in stand by fino al superamento dell’impasse momentanea, che ti svuota per poi riempirti di nuovo. Di una delicatezza disarmante, si raggiungono direttamente i nervi più scoperti, accompagnati da un’elettronica che serve a mantanere alta la tensione (nella chiusura della già citata Nothing but the Truth) e a trasformare la chitarra di Love the Game in un dolce addio. Si può già parlare di un folk rivisitato con Sad Song, che tanto ricorda certi brani di Elliott Smith, dove l’ironia musicale contrasta forte con il suo contenuto (We tried, but we failed..).
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BIRTHH, Born in the Wood, We Were Never Being Boring

18 Marzo

Nel nostro paese si scomodano troppo spesso termini come Rinascimento e Avanguardia, esplosioni e riscoperte, quando non è così. È il caso della acclamata ‘nuova generazione femminile’, scesa da chissà dove per portare nuove sonorità e interessi. Sono termini che vogliono dire tutto e nulla, oltre a mirare a una sciocca sessualizzazione dell’attenzione, spesso servono solo a dare un bel titolo che copra la mancanza di conoscenza di un fenomeno che è sempre esistito. Questo proprio perché fuori dai grandi riflettori è potuto crescere e plasmarsi da sé senza distrazioni. Se oggi possiamo parlare di Born in the Wood è probabilmente per questo. Birthh non è una creatura aliena, affonda le sue mani nella contemporaneità e ce la restituisce trasformata, rendendola amichevole anche nei sui strati più dolorosi. Senses diventa il controaltare per cui Chlorine può espandersi e trasformarsi nel fantasma che in realtà ha una materialità così densa da poterla toccare. Di scomparse e quantità il disco ne è pieno, e ogni brano si lega fortemente alla sua melodia, alternandosi in momenti di calma riflessiva a movimentate esplosioni anche, e soprattutto, nelle medemisa composizione (Queen of Failureland). Birthh ci restituisce una realtà fatta di strade senza uscita, di affermazioni di un io che non trova definizione (For the Heartless) e si rifugia nella produzione artistica, malattia e medicina allo stesso tempo. Più che di generazione femminile, basterebbe guardarsi negli occhi e capire che tutto questo c’è sempre stato, solo che non abbiamo cercato abbastanza.

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ISAAC GRACIE, Songs From My Bedroom EP, Buried Crowns Ltd

29 marzo

Basta un uomo e una chitarra, la voce roca che si alza nel ritornello perché negli Stati Uniti si formi una certa tensione attorno a uno dei possibili eredi di Jeff Buckley. Abbiamo assistito tante volte a questa gara su chi potesse raccoglierne la corona e li abbiamo visti in gran parte scomparire lentamente sotto questo peso. Perché, fondamentalmente, i confronti sono un errore, soprattutto agli inizi, e fanno più male che bene. Isaac Gracie ha alimentato attorno a sé queste attenzioni col suo Songs From My Bedroom, in cui l’intismo diventa quasi programmatico. Non si smarca da queste comparazioni, e il suo songwriting è classico come la composizione, lenta e delicata, che caratterizza tutto l’esordio. Persistono le influenze, Hollow Crown deve molto a Leonard Cohen e a quella generazione folk del Village newyorkese, ma questo non riduce la grande capacità di Gracie nell’interpretarsi e reinvestire questo background di una sensibilità più contemporanea. Un moderno Llewyn Davis che chiede di fermarsi un attimo davanti alla velocità che ci vuole lontani, un ascolto da fare soprattutto per se stessi.
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BÜR GÜR, Have You Lost Your Faith in God?, New Los Angeles

1 Aprile

Già da sola l’apertura di Afrobeat basta per comprendere che il viaggio che stiamo per compiere è davvero quello di una riscoperta del proprio concetto di divinità. Psichedelico quanto basta, assume dei contorni quasi ossessivi (Lungs) destinati poi a infrangersi su se stessi, come in quelle domande in cui si finisce senza motivo e sarebbe stato meglio non farsele. Non c’è una strada sicura – e quando mai un cammino di riscoperta lo è stato – ma questo non intacca la solarità di certi brani (War Games) e un po’ con la stessa leggerezza dei Kings of Convinience, procedono oltre. Questo e tanto altro sono i Bür Gür, una continua metamorfosi sonora in cui Green Sauce è forse l’esempio solo più immediato e che vale, certo, più di un ascolto. È questo stile che supera le catalogazioni, anche le più ampie, che contraddistingue tutta la durata di Have You Lost Your Faith in God?, vorticando senza sosta attorno a uno spettrometro in cui ogni colore è diverso dall’altro ma, in realtà, nemmeno così tanto. Per questo Lousiana, ad esempio, nonostante la sua radice folk va a integrarsi appieno con la potenzialmente dark Shek, ma ancora una volta si tratta di una suggestione momentanea. Se non sappiamo più in cosa credere qua c’è l’imbarazzo della scelta che, inevitabilmente, si modificherà mille volte ancora.
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LEUTE, 9 Songs, Legno

22 Aprile

9 Songs è allo stesso tempo titolo, numero di tracce e indizio programmatico di quello che stiamo per ascoltare. I Leute fanno dell’essenzialità il loro principio trainante ma, questo, non significa sacrificare qualità e carica aggressiva. Da un certo punto di vista riescono a rivisitare quel filone emo che abbiamo imparato ad apprezzare con i Fine Before You Came (Legno è la loro etichetta, ndr): accordi stretti, batteria che picchia dritta in cuffia e voce simile a un urlo sussurato. Ma i risultati sono diversi, nonostante la malinconia di fondo, e si aprono anche a qualcosa di nuovo. Qualcosa simile a un ritorno alla luce, un filtro per la rabbia o solo la ricerca di nuovi colori (Colourblind). Si liberano e si lasciano andare in What You Want to Hear, ripescando gli indizi che avevano lasciato sette canzoni prima, in attesa del gran final di Never Concrete dove ad andare in frantumi, questa volta, non sono gli strumenti ma soltanto i nostri cuori.
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GIUNGLA, Camo EP, Factory Flows

20 Maggio

È pericoloso considerare angeli le persone, parafrasando Pavese, quando dentro possono essere demoni. Questa duplice natura è la parte principale del Camo di Giungla capace di essere aggressiva e dolce allo stesso tempo. Più di Birthh, forse, questo equilibrio è frutto di una profonda ricerca di coesistenze fra sentimenti opposti, dallo scontro che parte dall’intro rock di Cold e va via via addolcendosi in Sand , fino alla chiusa di Forest, equilibrio trovato, effetto destabilizzante. L’EP di Giungla si raccoglie attorno a questo nucleo, di respinta e accettazione della molteplicità che ci ritroviamo dentro, ma finisce per avere un’identità chiara e determinata. Forse perché della linearità non sappiamo più davvero che farcene.
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PLASTIC LUNGS, Chameleon EP, Autoproduzione

22 Maggio

Come il loro Chameleon anche i Plastic Lungs trasformano la loro natura senza mutarla, questo perché come il cambio di colore anche le basi elettroniche e la voce in reverb sono armi difensive, frutto di una contaminazione uomo-macchina che però non cambia chi la utilizza. Nel loro primo EP, autoprodotto e in free download sulla loro pagina Soundcloud, a emergere sono essenzialmente questi due accostamenti e il loro sconvolgersi insieme. Il freddo mezzo meccanico che si umanizza con la voce, e viceversa la ristrutturazione sonora del naturale. La downtempo, in questo senso, funziona come ulteriore passo verso la sua convergenza, creando un impatto sonoro che poi si scioglie nella dissolvenza della drum machine. Notes, Song for a Mother, Falco e la title-track Chameleon sono una base coerente per quello che non può restare pù fermo, oltre quella soglia si estende il postumano (?).
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VERANO, S/t, Garrincha

24 Maggio

Il progetto musicale di Verano, nonostante sia all’esordio, è piuttosto chiaro e lineare. L’omonimo EP si inserisce perfettamente in quel mondo del nuovo cantautorato pop che vuole raccontare storie a chi lo ascolta, attingendo allo storytelling baustelliano (Ginger e Fred) quanto dalle influenze più retrò e glam (Wow, Thegiornalisti e via dicendo). Il risultato è un album unitario e piacevole, che permette già di intravedere quello che sarà il futuro, anche se il rischio, un po’ per chiunque in questo momento di fervore per il synth pop, è di essere sottavalutati e persi fra le proposte. Verano, però, può già dire la sua, grazie a una voce che si incastra perfettamente nell’immaginario agrodolce che tende a creare, si veda Il cielo su Milano, che sotto lo smog resiste ancora.
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INUDE, Love Is in the Eye of the Animals EP, Panorama Musique Records

28 Maggio

Gli Inude sono un gruppo da seguire in ogni aspetto. Ottime strutture sonore, una sinergia di strumenti e, soprattutto, un’idea di base forte. Elementi che convergono tutte insieme in ogni brano e plasmano l’intero concept. Le preferenze diventano più soggettive che mai davanti a una simile quantità di dati e sensazioni che questo EP produce nel suo alternarsi. Il livello è alto, Hudea, ad esempio, nasce da una certa vicinanza ai Moderat, ma è una suggestione perché non ci si accosta mai, proseguendo lunga la sua strada individuale. Dust percorre un certo primitivismo iniziale ma, ancora una volta, è una falsa pista che disorienta e ti fa arrivare direttamente in bocca a questi demoni. Ma il percorso non è ostile, ti si attacca dentro nelle sue mani indecifrabili. Love Is in the Eye of the Animals EP è di diritto fra le migliori cose che abbiamo sentito quest’anno.
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