The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid To Die – Whenever, If Ever

I The World Is a Beautiful Place and I Am No Longer Afraid To Die sono una band americana di circa 10 elementi, attiva già da qualche anno, che ha pubblicato all’inizio dell’estate il suo debutto full-lenght, Whenever, if Ever, su Topshelf Records. Avendo chiara l’immagine e il roster dell’etichetta americana, è superfluo rilevare il richiamo al revival emo anni ’90 insito nella struttura ossea e nel DNA di questo collettivo del Connecticut.

Le frecce al loro arco sono però molte e piuttosto diversificate; per questo il disco finisce per rivelarsi ambizioso sotto diversi aspetti e non manca di riservare più di una sorpresa, vuoi per la varietà di strumenti, suoni e soluzioni strumentali consentite dalla dimensione di collettivo di cui la band dispone, vuoi per l’avventurosa matrice post rock e indie rock che contamina la formula strutturale e il songwriting dei The World Is a Beautiful Place.

I marchi di fabbrica sono le chitarre squillanti, i loro intrecci melodici e l’emotività della voce, gracile e sgraziata, che costituisce un forte discriminante nell’apprezzare o meno il disco. Per quanto mi riguarda, convincono complessivamente le parti a più voci, con una predilezione per  i momenti in cui emerge forte il richiamo ai primi Modest Mouse.

Sebbene quasi tutto quello che i The World Is a Beautiful Place hanno da offrire suoni già sentito e anche non poco riconoscibile, l’equilibrio che trovano tra urgenza e dilatazione, vuoto e coralità conferisce al prodotto una sua identità e una notevole organicità compositiva.

Le strutture sono caratterizzate da un estrema gradualità nelle transizioni, sempre enfatizzate e di lenta costruzione, tra parti scarne e momenti più epici, evitando quasi sempre la giustapposizione quiet/loud. Non che ci sarebbe stato nulla di male, ma la band sceglie di dare il giusto spazio alle atmosfere cinematiche e poi agli assalti collettivi (assalti morbidi ma intensi da collettivo canadese in area Broken Social Scene), senza mai esagerare e mantenendo la sintesi emotiva e poetica che funge da filo conduttore.

Tralasciando i diversi momenti trascurabili, le parti salienti sono Heartbeat In The Brain, che segue l’intro con il groove più convincente del disco, e l’unione tra Picture of A Tree That Doesn’t Look Ok e You Will Never Go To Space, momento centrale e definitivo per tutte le dinamiche che la band mette in gioco nel disco. Poi c’è il finale; dall’intensa Gig Life, per Low Light Assembly, fino a Getting Sodas, che nel gigantesco tripudio di coralità finale risolve le questioni poste da Heartbeat In The Brain conferendo al disco quel carattere circolare di concept tematico ed emotivo che viene sorretto anche dall’organico andamento delle dinamiche strumentali.

I sobborghi americani, la familiarità, il cambiamento con l’irrompere dell’età adulta, il mutare dei legami, le separazioni, l’incertezza, la ricerca del proprio posto nel mondo, il salto dal terreno per un atterraggio incerto.

“The world is a beautiful place but we have to make it that way. Whenever you find home we’ll make it more than just a shelter. And if everyone belongs there it will hold us all together. If you’re afraid to die, then so am I.”

Topshelf, 2013

Tracklist:

  1. Blank #9
  2. Heartbeat In The Brain
  3. Fightboat
  4. Picture Of a Tree That Doesn’t Look Ok
  5. You Will Never Go To Space
  6. The Layers Of Skin We Drag Around
  7. Ultimate Steve
  8. Gig Life
  9. Low Light Assembly
  10. Getting Sodas
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