THIS MUST BE THE PLACE – il cinema fuori dall’ordinario di un inventore d’immagini napoletano

Se bastasse un’immagine iconografica a rappresentare un’opera d’arte This Must Be The Place avrebbe nel volto di Sean Penn, truccato alla stregua di Robert Smith dei Cure per interpretare la rockstar Cheyenne, il suo simbolo perfetto; ma visto che è di Cinema che si parla e che l’opera d’arte in questione è di Paolo Sorrentino sarebbe riduttivo limitarsi a tale rappresentazione. Il personaggio di Cheyenne, la sua storia, sono il mezzo che Sorrentino utilizza per disegnare uno degli affreschi cinematografici più originali e anticonvenzionali degli ultimi anni, anche per merito dell’eccezionale fotografia di Luca Bigazzi.

La trama, caratterizzata dal classico sarcasmo sorrentiniano, si divide in due parti legate indissolubilmente dal ritmo flemmatico che il protagonista impone alla narrazione attraverso la fisicità e la parlata: dalla scoperta graduale dell’ex rockstar Cheyenne e del suo modo di vivere a Dublino si vira ad un atipico road movie che accompagna la ricerca di un criminale nazista in giro per l’America. Il sentimento di vendetta che nasce nel protagonista alla morte dell’anziano padre e alla lettura dei diari in cui spiega le umiliazioni subite ad Auschwitz, si manifesta lentamente e inaspettato per la personalità della rockstar che tutto è parso fino a quel momento fuorché un simil angelo vendicatore capace di uccidere qualcuno. E infatti dall’attimo in cui comincia ad investigare per scoprire dove si trova quello che fu il carceriere del padre, Cheyenne non esterna mai emotivamente la sete di vendetta e la sua indolenza lo abbandona solo quando al cospetto dell’amico cantante David Byrne (interpretato da sé stesso) si sfoga confessando ciò che pensa sia stata la propria vita fino ad allora. La magnificenza di This Must Be The Place è nella capacità evocativa delle immagini che ogni singola scena regala allo spettatore; la sceneggiatura scritta a quattro mani dal regista con Umberto Contarello diviene un filtro utile a portare determinate situazioni ad essere rappresentate non tanto con un dialogo quanto con un particolare di ripresa o con un campo lungo piuttosto che con dei movimenti funzionali all’azione dei personaggi tutti degni di primo piano a sottolineare anche solo l’intenzione di approfondire attraverso uno sguardo gli sviluppi interiori di ognuno di loro.

Sarebbe stato però solo un perfetto esercizio stilistico questo film se non ci fosse stato ad interpretarlo da protagonista l’attore più sorprendente degli ultimi vent’anni: Sean Penn si è inventato un personaggio magneticamente apatico partendo dalle sembianze del cantante dei Cure per timbrare un’idea di quella tipologia di rockstar studiata con Sorrentino, ma a parte tale spunto reale ha scoperto il suo Cheyenne immaginandosi una camminata dinoccolata, una parlantina incerta e sussurrata, una risata appena accennata che rimarrà nella storia del Cinema, uno sguardo distaccato e assente, e una ballata memorabile sulle note di The Passenger di Iggy Pop cosa che più di ogni altra temeva alla lettura della sceneggiatura. Il racconto non può prescindere dal modus interpretativo deciso da Sean Penn e ogni singola scena è condizionata dalla lentezza di base che caratterizza il suo personaggio, tanto che tutti gli altri interpreti si mettono al servizio di tale anomala condizione narrativa facendo da contraltare in tutti i sensi a Cheyenne, a cominciare dalla bravissima Frances McDormand nei panni della moglie- pompiere che cerca col suo approccio rassicurante di tranquillizzare il coniuge senza scuoterlo più di tanto dallo stato in cui si trova ma stando al suo gioco così da far divenire emblematici tutti i dialoghi che li vedono protagonisti. Elemento fondamentale per questa pellicola è la musica scritta da David Byrne che recita anche in una breve scena oltre a regalare una splendida performance dal vivo della canzone (scritta ai tempi dei Talking Heads) che dà il titolo al film e che fa da tappeto sonoro per tutta la durata della storia: proprio il frammento del concerto di Byrne che canta This Must Be The Place è significativo dell’essenza del lavoro di Paolo Sorrentino, perché l’interpretazione viene mostrata e fatta ascoltare totalmente a differenza della maggior parte delle opere cinematografiche che di tali situazioni ne riportano solo pochi attimi; invece l’importanza sonora, visiva ed evocativa di questa scena sottolineano l’assoluta necessità del regista napoletano di personalizzare il suo Cinema fregandosene di quelle regole narrative e ritmiche alla base dell’omologazione cerebrale di cui è vittima lo spettatore medio contemporaneo. Paolo Sorrentino è un geniale creatore d’immagini e con la sua prima opera lontano dall’Italia ha dimostrato di essere all’altezza di imporre il proprio stile qualitativamente e tecnicamente senza scendere a compromessi con la volontà commerciale dell’industria cinematografica ma servendosene per fare esattamente il film che aveva in mente, grazie soprattutto ad uno straordinario Sean Penn; This Must Be The Place è un’intensa esperienza visiva molto poco convenzionale, che difficilmente incontrerà il piacere unanime del pubblico…ma questo è il prezzo a cui vanno incontro le migliori opere d’arte.

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