Tomato Red di Daniel Woodrell: storia di adolescenze di periferia

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La faccio breve: Daniel Woodrell è un eccellente narratore. Tomato Red (NN editore, traduzione di Guido Calza) fa parte della serie dei country noir di West Table ed è la storia di certe adolescenze di periferia, di ghettizzazioni, di destini che provano a sfidare i margini delle classificazioni sociali e l’amarezza della vita. Siamo in Missouri, la voce narrante è di Sammy, un ragazzo senza niente, smargiasso per necessità, che ha imparato a domare il bisogno di amicizia per non apparire sfigato e debole. Non si può fare a meno di volergli bene, perché è sveglio, simpatico, persino saggio e sensibile. Di lui molte cose le apprendiamo tra le righe, nei non detti, nei particolari sottaciuti: il silenzio eloquente, la sottrazione, che non è omissione ma costruzione precisa, sono un distintivo stilistico di Woodrell e come lettrice è qualcosa che apprezzo, mi piace.

Sammy è abituato a reagire ai colpi bassi, a volte incassa, altre bestemmia o reagisce, la rabbia è una bomba a orologeria che si porta appresso. Quando conosce Jamelee (detta Tomato Red per i suoi capelli) e suo fratello Jason, Sammy assapora la sensazione di sentirsi a casa. Avviene un riconoscimento: tutti e tre sono incatenati in un luogo che detestano, provinciale, lurido, dove non sono ben voluti. Tutti e tre sono capaci di guardare oltre le apparenze, oltre il marciume, tutti e tre, a volte, si concedono il lusso di sognare. La più temeraria è Jamelee, convinta che un giorno riuscirà a tirarsi via dal buco che ha per casa, insieme al suo amato fratello, bellissimo e inviso a tanti perché omosessuale. Il marchio che Jam e Jason si portano appresso è di essere i figli di una prostituta, custode di segreti e pochezze di paese, per tutti una donna impresentabile ma alla quale molti uomini affidano pensieri e ombre dell’anima. Sammy in loro trova una famiglia: nasce un’alleanza, un patto finalizzato a prendersi gioco dei concittadini bifolchi e razzisti per elevarsi, evolvere.

 

L’intera narrazione corre verso un miglioramento per i protagonisti, verso un barlume di felicità da condividere. Sammy si illude di aver trovato in Jam, Jason e la loro madre un riferimento definitivo, e anche se prova a nascondere questa speranza (il lusso dei lussi), ci si aggrappa con energia. Ma poi accade qualcosa che è uno spartiacque nella narrazione e nelle esistenze dei personaggi: Woodrell concede una via di uscita soltanto a uno dei protagonisti e ad un prezzo molto alto.

Il fascino di questa storia, oltre che nella sua estrema verità, sta nel linguaggio, impastato di una benevolenza di fondo, che è quella dell’autore verso i suoi ragazzi. In loro lo scrittore riconosce qualcosa di sé stesso, per questo riesce a comprenderli, a immedesimarsi. Le loro esperienze sono quelle di chiunque sia cresciuto in periferia, con pochi mezzi e una voglia matta di stare meglio, di dimenticare, di tagliare i ponti. Le aspirazioni di Jam, Jason e Sammy indignano i vicini di casa, i concittadini, quelli che sono abituati a trattarli come cani randagi. La madre di Jam e Jason che sa quanto gli esseri umani possano essere crudeli, prova a tirarli per i piedi ogni volta che si proiettano altrove, ogni volta che sono certi di poter elevare un muro tra un prima e un dopo.

All’autore non interessa dispensare soluzioni, lascia molte questioni irrisolte e senza risposta: vuole accompagnare questi adolescenti scandalosi e sopra le righe e vedere se ce la fanno a trovare il loro posto. Capirete che si tratta di sussulti, di movimenti impercettibili lungo lo srotolarsi della trama, che procede parallelamente tra una dimensione visibile, fatta di frasi, ed una invisibile. Non è un romanzo denso, è snello e affilato, cattura il lettore e non lo molla. Niente lieto fine, nessuna consolazione: solo gli schiaffi e le mazzate del vivere, non senza sarcasmo e ironia, laddove possibile.

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