Torres – Three Futures

Torres - Three Futures

Più o meno per tutti — nella vita, durante una carriera, anche solo nel corso di una serata — arriva un momento in cui prendi coscienza di te stesso. Come la Pasqua, arriva sempre, prima o poi. Per qualcuno presto, per qualcuno subito, per qualcuno più tardi, per qualcuno mai — ma pure in quest’ultimo caso, come concetto, non fa differenza: anche mai, tecnicamente, è un ben preciso (si fa per dire) asintotico istante nella linea del tempo. È una specie di self-epiphany durante la quale capisci che hai un corpo e che quel corpo ha bisogno di spazio, è quell’istante in cui decidi che puoi permetterti di cercarlo, occuparlo, pretenderlo, quello spazio. Chiamiamola genericamente pubertà: a volte compare all’improvviso e ti lascia un po’ scombussolato — come le mestruazioni in quinta elementare della mia compagna di classe Martina — altre volte è una cosa graduale e più consapevole, quasi controllata, per quel che si può — come l’evoluzione del songwriting di Torres.

La pubertà musicale di Mackenzie Scott sembra essere arrivata infatti — con tutta calma — in concomitanza del terzo album, Three Futures, il primo per 4AD. Un disco a tratti quasi ossessionato, appunto, dalla necessità di prendersi il proprio spazio (in tutti i modi possibili in cui questa esigenza può manifestarsi), garantendosi tutto il tempo necessario che la non scontata operazione richiede. Un disco estremamente fisico, che non lascia niente di intentato nella sua ricerca di illuminare anche gli angoli più reconditi della stanza immaginaria che lo circonda, lasciando i mostri che lì si nascondevano in quel panico abbagliato tipico dei vampiri al sole. Un disco a suo modo lascivo, ma in una maniera radicale. Radicale nel senso di Pannella. Scientificamente provocatorio nel suo estremo bisogno di esserlo. La cantante stessa ha definito la sua gestazione “a completely consuming experience”, e la cosa ha inevitabilmente partorito una decina di tracce dentro le quali bisogna immergersi non solo con le nostre orecchie ma con qualunque altro senso abbiamo a disposizione. Dieci tracce in cui ogni nota trasuda la martellante ambizione di suscitare esattamente questa urgenza nell’ascoltatore.

Torres (il nome d’arte — o, come lei preferisce chiamarla, la sua “versione in realtà aumentata” — dell’artista di Orlando, ora definitivamente traferitasi a Brooklyn) seziona la propria presa di autocoscienza in una equilibrata battaglia tra controllo contenuto e liberazione rabbiosa. Three Futures è una tempesta industriale stretta in una camicia di forza, un vulcano a fior di pelle che prova a celebrare il corpo in tutte le sue forme e imperfezioni: vestito o esibito, coperto o nudo, innamorato o solo imbarazzato, spiattellato in faccia o nascosto nell’ombra. Un outing di desideri carnali, sogni erotici e insicurezze relazionali che contemporaneamente grida una meritata self-indiependance. Mackenzie gioca con i generi (quando ad esempio apre l’album con una surreale quanto esplicita “I got hard in your car” o nel momento in cui, durante Righteous Woman, ammette senza mezzi termini “I’m more of an ass man”), fingendo di rimanere in equilibrio sul sacro per poi inciampare volontariamente nel profano, come nella title-track, dove la visionaria profezia “Who didn’t know I saw three futures / One alone and one with you / And one with the love I knew I’d choose” ricorda non tanto la mistica “trinity divided” che compare qualche verso dopo, quanto piuttosto un ben più naughty threesome, maliziosamente circoscritto nel perimetro di quella figura geometrica che a suo tempo il nostro Renato Zero non aveva considerato.

In altri termini, se i suoi primi due album erano stati una doppia catfight che tentava le due uniche strade possibili per conciliare le rigide fondamenta religiose della sua educazione southern con i desideri, le ambizioni e le interazioni con il mondo dei suoi vent’anni lontano da casa (con un tono più sommesso e introspettivo nell’omonimo debutto del 2013, facendo esplodere il bubbone del conflitto in un rabbioso rifiuto e in un’elettrica teenage angst con il successivo Sprinter — in assoluto “miglior lato A” del 2015), questo terzo lavoro la vede accomodarsi nel posto che le compete, in maniera potenzialmente matura ed educata se il posto in questione è libero, facendosi spazio a gomitate nel caso fosse ingiustamente occupato. Mettendo solo a tratti da parte l’immediatezza furiosa di una vecchia — che ne so, scelgo (quasi) a caso — Strange Hellos, Three Futures è inzuppato dentro una produzione densa e scura — il corrispettivo sonoro di una camera da letto con le serrande semi-abbassate, in cui la luce filtra solo in certi momenti della giornata dalle uniche fessure lasciate aperte — che borbotta pesanti quanto pulsanti basse frequenze, sottolineate da un’ampia varietà di glitch elettronici, texture tipicamente kraut e acidi accenti distorti di chitarra. A livello vocale le muse rimangono PJ Harvey e Anna Calvi, con qualche deviazione ammirata verso Siouxie, anche se qui il vero riferimento pare, in generale, Saint Vincent, con la sua lingua biforcuta e le sue pugnalate di sei corde, le sue fuggevoli dosi di meravigliosamente sottovalutata melodia a fare da contrappunto ai graffi cadenzati che stanno sotto la superficie.

Proprio in questo senso, una manciata di soluzioni sonore a tratti nuove rispetto alla classica icona di “ragazza con la chitarra”, perfettamente abbinate a testi che partono ammiccanti e finiscono in un territorio che va dal criptico al bizzarro fanno sì che questo alla fine — a dispetto del concetto forte e della spinta decisa che sta alle sue spalle — risulti l’album più variegato di Torres, quello che presenta meno appigli a cui aggrapparsi per trovare un equilibrio una volta che hai inforcato le cuffie ma che allo stesso tempo — proprio grazie a questa specie di vertigine — centra perfettamente l’obiettivo di scivolare in maniera del tutto naturale tra i suoi momenti più gridati e quelli più rilassati, risultando così sul serio un’esperienza di ascolto completamente immersiva: qualcosa che rivela se stesso in maniera diversa ogni volta che ritorni, ogni volta che premi di nuovo PLAY, ogni volta che — dipende dal livello di vintageness con cui ti approcci alla cosa — alzi il braccio del giradischi e appoggi di nuovo la testina in un solco a caso.

Mackenzie Scott è una songwriter eccezionale, che riesce a bilanciare la sua scrittura tra la creazione di una narrativa armonica a cui appassionarsi e l’utilizzo di parole dal sapore così vago che riescono in contemporanea a lasciarti intravedere un significato più profondo ma senza mai far mancare il necessario, sconfinato spazio all’interpretazione.

Così Three Futures ti scivola addosso nel suo essere un disco profondamente sensuale, anche se lo fa in un modo che distorce la tradizionale lente attraverso la quale in genere la sensualità è vista nella musica rock: tutta la serie di dicotomie che vengono analizzate — conforto contro disagio, scelta contro destino, timidezza contro edonismo — si basa fondamentalmente sul dolore che si prova apprezzandone i piaceri. È una consapevolezza nuova, di una ragazza che si è fatta donna e ha ormai definitivamente sbriciolato il guscio di fastidio e resistenza delle sue precedenti uscite, soffiando con forza dall’interno verso l’esterno, con un respiro costante, sottile e mirato: lo sbuffo convinto e soddisfatto di chi (permettetemi l’ultimo doppio senso kinky) ha finalmente spezzato la catena che teneva insieme le sue manette dietro la schiena.

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