Tre domande a Natalia Guerrieri

Chiara vive nella capitale, città senza nome di cui è facile intuire l’ispirazione, in un appartamento condiviso dove è arrivata dopo una delusione lavorativa e uno stage senza futuro. Racimola i soldi per sopravvivere facendo la “rondine”, cioè la rider della Envoyé, società che gestisce consegne in giro per la città e che lega a sé i dipendenti in un sistema che valuta il lavoro con punteggi cappio. Chiara non ha pause né limiti di orari e ha un supervisore aggressivo e inquietante che segue ogni suo spostamento e consegna. Il suo sogno, però, è scrivere e temporeggia perché crede davvero che un giorno arriverà la sua occasione. Sono fame, Pidgin edizioni, è il secondo romanzo di Natalia Guerrieri, un’opera sullo sgretolarsi del futuro, sulla perdita delle ambizioni e delle speranze in una società che sfrutta, brucia le identità e poi le abbandona.

 

Natalia Guerrieri

La rappresentazione dei luoghi nel tuo romanzo funge da contraltare al precario equilibrio mentale di Chiara. Una capitale oscura, sporca, inospitale in cui niente è adatto a una vita dignitosa. Si potrebbe dire che questo sia uno degli elementi distopici del romanzo, eppure, leggendo, pensavo anche che tutto fosse molto realistico. Viviamo già nella distopia di Chiara o c’è ancora un modo per evitarla?

Grazie in primo luogo per avermi invitata a partecipare a questa intervista. Chiaramente, non ho risposte certe per una domanda così importante. A mio parere, molti tratti della nostra società sono inquietanti e con la descrizione della capitale, immensa e cannibalica, volevo parlare proprio di questo, in riferimento in particolar modo al mondo del lavoro. Nella capitale mangi o sei mangiato, vivi ammassato insieme a tutti gli altri e contemporaneamente sei immerso nella più atroce solitudine. In questo senso, sì, possiamo dire che viviamo già in una dimensione distopica. Il neoliberismo, come dice il filosofo Byung-Chul Han, ci ha resi tutti “imprenditori di noi stessi”, ottimizziamo le nostre risorse per superare costantemente gli altri e i nostri limiti personali ma qual è lo scopo finale? C’è davvero un premio, alla fine, per cui valga la pena vivere così? Secondo me esistono ancora piccoli margini di manovra per dire dei no a una condizione non sono lavorativa ma anche esistenziale che è alienante. Riconoscere che il problema non è individuale bensì sistemico credo sia il primo passo per affrancarsi dall’idea di dover rimanere all’interno di questa dinamica.

Il lavoro di Chiara sembra un porto sicuro, soldi facili e supervisori motivanti, ma si rivela presto violento e pericoloso. Come se non bastasse, anche il settore a cui aspira Chiara, quello della scrittura, si dimostra altrettanto crudele. Racconti la cronaca di un rifiuto e la drammatica presa in giro finale, che non spoilero. Basti sapere, però, che l’episodio dimostra come il peso della crudeltà altrui e la corsa alla performance affossino anche le persone più solide. Credi che la letteratura, in generale, si stia occupando adeguatamente di questo aspetto della vita quotidiana delle generazioni più giovani?

Non saprei, la letteratura di per sé è un concetto davvero molto vasto. Ho trovato una cassa di risonanza di quello che sta accadendo alla mia generazione in alcuni libri che colgo l’occasione di citare: Non è questo che sognavo da bambina (Garzanti) di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio, La valle oscura (Adelphi) di Anna Wiener, Oval (Zona 42) di Elvia Wilk e Problems: stupefacenti complicazioni (Pidgin) di Jade Sharma. A mio parere, un romanzo non può (e non vuole) essere un reportage o un articolo di giornale, perché si tratta di una scrittura per sua natura diversa ma, che lo vogliamo o no, se scriviamo nel 2022 il mondo che ci circonda è quello del 2022. Possiamo approcciarci a questo dato di fatto in molti modi, quello a mio parere più interessante è filtrare la realtà attraverso una storia, cosa del resto che, dall’alba dei tempi, l’umanità ha sempre fatto. Ho voluto scrivere Sono fame anche per riappropriarmi di una narrazione che mi riguarda da vicino, quella appunto dei cosiddetti millennials. La dimensione di questa scrittura per me non è individuale né autobiografica ma, almeno nell’intenzione, collettiva, nel senso che cerca di dare voce a più esperienze e a più voci che ho ascoltato e raccolto (anche se ovviamente il libro non ha la pretesa di essere la descrizione esaustiva della mia generazione). È interessante restituire le narrazioni a chi le vive, a mio parere, anche per non correre il rischio di “farsi descrivere dall’esterno” attraverso approssimazioni e luoghi comuni, o peggio, ritratti distorti.

Il lavoro da rondine è un anestetico di delusioni e preoccupazioni, ma in realtà la protagonista vive in uno stato costante di attesa del debutto che le permetterà di usare le proprie competenze. E quando chi legge si convince che quel momento di riscatto è finalmente arrivato, tutto si perde. Nel finale, tratteggiato leggero, si suppone che Chiara prenda una decisione drastica che le darà un po’ di equilibrio. Ma c’è davvero un lieto fine per Chiara, oppure anche solo la salvezza temporanea dal brutto che la affossa è un lieto fine sufficiente?

Questa non è una storia tradizionale e di conseguenza manca anche il percorso di un’eroina che riemerge trionfante da una serie di prove. La struttura di questo romanzo è la discesa verso un abisso sempre più profondo. Non c’è edulcorazione della sofferenza, volevo liberarmi dalla narrazione a mio parere tossica secondo cui dai maltrattamenti (come mobbing, discriminazioni varie e violazione dei diritti nel mondo del lavoro) si esce rafforzati. È una narrazione che, in definitiva, assolve ogni forma di ingiustizia perché la rende “utile”. A mio parere non è così, la gente merita un lavoro decente e una vita decente perché un sistema non sostenibile non può che portare, riprendendo ancora una volta le parole di Han, al burn out. Per me Sono fame non è un romanzo disperato, perché laddove c’è una presa di coscienza, quando cioè capiamo che possiamo valutare diversamente sia la situazione in cui ci troviamo sia noi stessi, nasce anche la speranza di poter cambiare strada.

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