Tu che eri ogni ragazza: la pietà nelle parole di Emanuela Cocco

Gli oggetti ci sopravvivono. Il fuori è sempre stato lì. La figlia è ogni ragazza. La nostra storia è quella di tutti, la loro è la nostra. Non c’è nessun fuori e nessun dentro, solo una faticosa e smemorata osmosi. Questi i punti fermi, le spine attorno a cui si srotola il romanzo di Emanuela Cocco, Tu che eri ogni ragazza, edito da Wojtek Edizioni. Partiamo col dire che il pregio del libro è di inserirsi senza retorica in seno a uno scollamento: tra dentro e fuori, tra la parte di società “che ce l’ha fatta” e quella che è rimasta indietro, tra il senso di giustizia personale e la perdita di empatia, tra la vergogna e la spinta all’azione. Le parole, le circostanze e le sperimentazioni si distribuiscono sulla pagina a disegnare l’unica grande ferita attorno a queste spine, resa purulenta dall’atrofizzarsi di una qualsiasi forma di resistenza: la cicatrizzazione è impedita dallo spettacolo, dall’inerzia colpevole, dall’impotenza, dall’egoismo (a sua volta dettato dall’erosione delle proprie certezze).

La Cocco però riesce a dare voce a questo pozzo di miserie schivando il tono lamentoso, la litania retorica e unidirezionale di chi sa esattamente ciò di cui sta parlando, di chi non partecipa al dramma. Lo fa fagocitando al suo interno i suoi stessi limiti: se il rischio è la spettacolarizzazione della pietà, la retorica vuota e disinteressata, usata come scudo o forma di attacco, la Cocco reagisce accettando e scoprendo le carte di questo gioco, parodizzandone le degenerazioni, mettendo su, come intermezzo, un simulato contest letterario volto a suscitare una raggelante pietà nel lettore. Raggelante perché studiata a tavolino, tagliente e efficace. Ma comunque pertinente e profonda nelle sue verità. Lo smascheramento della retorica partecipa alla costruzione di una rappresentazione multiforme della violenza e della pietà, cieca nelle sue risposte definitive, quindi irrisolta e partecipata. In questo destino comune di inerzia, in questi corpi bloccati e muti, in questa convivenza forzata di conflitto di interessi, l’unica certezza è che il conflitto di interessi non esiste, il destino è comune, gli schieramenti sono delle fallaci categorie dovute a una cementificazione precaria dei ruoli, che una volta smascherata aggiunge la vergogna all’incatenamento nella propria parte di mondo. Scollamento e inerzia, quindi. Conati di empatia strozzati da una comunicazione amputata, perché chiusa e autoreferenziale, guidata dal segno delle proprie colpe.

È soprattutto il protagonista maschile, padre di una ragazza uccisa dopo uno stupro, che con i suoi sanguinolenti soliloqui accompagna il lettore verso la porta tra il dentro e il fuori, per poi chiudersela alle spalle. Lui è il dentro, il benessere, la quotidianità agiata. La morte della figlia è l’indice che indica oltre la porta, verso l’altra metà della realtà, un fuori fatto di dolore, povertà, sudiciume e violenza, un fuori che nessuno vuole conoscere e che prima o poi si presenterà con prepotenza a rapinare il dentro, nolente o volente, per essere finalmente guardato. Di fronte a questo violento bussare, di fronte a questo sfondamento della propria personalissima ricostruzione della realtà, la madre sembra reagire blindandosi dentro, gelosa del suo dolore, “guardate il mio dolore, perché è mio”. Il padre invece, quello che poi diventerà “Gesù”, il benefattore del ristorante Amore, si affaccia sull’uscio della porta, si rende conto della vasta e radicata esistenza di un fuori:

“Questo mondo, la cosa alla porta, lì fuori, non alla nostra porta, certo, ma parcheggiata chissà dove. Avremmo dovuto farla entrare in casa. Com’è che non ci abbiamo pensato? Prima, non dopo. Incontrarla, fare le presentazioni, fare come se fosse casa sua, la nostra vita. Fartela conoscere. Lasciarla entrare. Parlarci un po’, offrirle un riparo, prendercene cura, scortarla per le strade, tenerla vicino. E, respirarla tutta, dissezionarla, studiarla per bene per poi mostrartela come una cosa dichiarata, non solo una parte, ma tutta intera, compresa e definita, tutta indagata, nuda, spogliata dell’ultima giustificazione possibile.”

Così facendo, apre il petto e i pensieri a un primo tipo di scollamento: quello tra il giudizio e l’amore. Come può un uomo soppesare delle vite, decidere chi salvare e chi no? Nel farlo salverebbe se stesso, si metterebbe al riparo dal sacrificio più completo di sé, perché salverebbe il suo giudizio, apporrebbe dei canoni alla sua bontà: sceglierebbe una brava persona, a lui gradita, non troppo impegnativa e senza macchia. Perché la povertà da combattere deve essere così, candida e fragile, deve essere docile sotto la carezza di un paterno dio. Invece nella realtà la caritatevole mano stesa viene insozzata dal sudiciume, dalla malattia, dalla prostituzione di un fuori maleodorante e corrotto:

“Non si può scegliere, è questo il punto, perché la scelta rovina tutto. Se non rinunciamo a questo, compiamo qualcosa di mostruoso. Ma la verità è che non siamo disposti ad alzare un dito, se non possiamo scegliere. Io non potevo caricare un vecchio paraplegico pisciato fino al collo sulle mie ginocchia (…) soprattutto non avrei potuto volergli bene.”.

Si impone quindi lo scacco: se si sceglie, ci si mette al riparo, ma se non si sceglie, non si ama. Il tono diretto e scoperto denuncia il peso dell’amore incondizionato.

Un amore incondizionato che invece Jungla, la storia parallela a quella del padre-Gesù-pretendente samaritano, è pronta ad offrire in brevi e disperati momenti di fiducia. Jungla è una ragazza possente, dalla storia difficile, fatta di assistenti sociali e solitudine, emarginazione e diffidenza. Ha strangolato la sua umanità per gareggiare con la competitività del suo mondo, del fuori, in cui ci si sbraccia tra cinismo, consumismo, e bulimia delle immagini. In sostanza: sentimenti al ribasso e svendita di sé. La pornografia è l’essenza del suo scenario adolescenziale: zoom sui dettagli, perdita di una visione organica, velocità dell’esecuzione, sensazionalismo e superficialità nel piacere, così come nel dolore. Nulla è veramente importante, eppure tutto viene ingurgitato e vomitato, i tempi dell’assunzione e della defecazione sono radicalmente accorciati. Jungla arranca e si adatta a questo ambiente, a patto di rinunciare a una parte di se stessa, quella che cerca aiuto, quella che agogna un vero contatto umano.

Tra i due, il varco è rappresentato dalla presenza di Duca, un’assistente sociale, il rovescio della medaglia del padre-benefattore: lui vuole portare dentro qualcuno ma non sa come fare, lei ha i mezzi ma non la compassione, non l’interesse; lui è stato colpito dall’entrata del fuori nel suo mondo, lei sta per essere cacciata dal dentro, sta per essere marginalizzata dal precariato selvaggio che pian piano corrode i lembi della sua quotidianità, avvicinandola a quei ragazzi ai bordi della società, costringendola a un lavoro di frontiera per e dentro l’aridità senza prospettive. Lei sa, conosce quel fuori tanto schifato, ma non ha il coraggio né l’interesse per affrontarlo, si limita a scivolare sulla periferia della realtà.

“C’era tutta una vita operosa dietro quei canneti. Giovani corpi boscosi sotto le fronde cotonate di biondo, su cui sborravano i vecchi parcheggiati lungo la strada. Culi recisi nel mezzo da perizomi rossi si agitavano a favore degli automobilisti, ballando una musica immaginaria. I fari delle macchine appostate, le gambe livide delle ragazze. Nessuno le costringe, no? No, è risaputo: le nere si divertono, le rumene son fatte così, le prime sono esperte, le altre piccole e minute. Il culo piccolo, il volto angelicato. Duca si vergognava. Erano piccole. Nessuno le costringeva, no?”

Queste tre monadi impazzite, bisognose di contatto, rimangono però intrappolate in un anfratto comunicativo ingombrato da cianfrusaglie, da brand, da cose innominate che occupano spazio, ostacolano i movimenti e imbavagliano la parola. La scrittrice però qualche cosa ce l’ha detta, qualche spina ce l’ha mostrata. E così la prossima volta che ci chiederemo quanto è grande questo fuori, dove si trova questo fuori, potremmo anche non sorprenderci nello scoprire che ci siamo già, fuori, o che l’osmosi lenta e imperitura sta già aprendo un varco.
VOTATE PIETÁ

Exit mobile version