Tutti Ammassati Senza Affetto | Intervista ad Arssalendo

Ho fatto una felice chiacchierata col giovane producer romano Arssalendo in occasione dell’uscita di Tutti Ammassati Senza Affetto, pubblicato dalla  giovanissima etichetta Grazie1000. Per chi non lo conoscesse Arssalendo con questo disco è al secondo lavoro dopo Litania (primo 2020) nel quale era già all’opera un certo lavoro di decostruzione del suono e del ritmo, e con Tutti Ammassati Senza Affetto, si conferma un talento più che emerso: si tratta di otto tracce per un totale di 23 minuti densissimi di esplosioni ed implosioni: Arssalendo prende a mani basse qualsiasi ritmo della tradizione elettronica, dalla techno in 4/4 alla jungle e alla drum n bass, dalla dance nostrana all’hardcore, e lo distrugge; ci canta sopra mescolando l’intimità della propria voce ai synth tanto da non capire dove cominci una e finiscano gli altri; ed il risultato è, oltre che bello, particolarmente interessante. Perché è un ascolto non comune nel panorama italiano: perché con la commistione fra musica rotta, con le sue impennate ed i suoi bruschi rallentamenti, e voce che sembra quella di un fantasma che si confessa nei circuiti del suo computer, Arssalendo fa strabordare l’umano nel sintetico e il sintetico nell’umano, creando un contrasto fertile, poetico.

 

Raccontami la genesi del disco: come nasce, come l’hai costruito, da che esigenze si muove?

Allora questo disco è in un certo senso in continuità col primo, quantomeno per l’emotività che contiene: diciamo che se nel primo comunicavo quasi con solo la musica, in questo disco invece canto proprio quello che provo. Quando era uscito Litania stavo entrando un po’ in hype, sembrava che l’album stesse piacendo, dovevo portarlo in giro e suonarlo, poi però con la pandemia e le chiusure, ovviamente mi sono dovuto fermare, e dopo mille pensieri ripartire. La maggior parte del disco l’ho scritta in momenti in cui non era molto in me, nel senso che fuggivo da cose di cui invece dovevo rendere conto a me stesso, e ad un certo punto mi sono detto basta: devo fare qualcosa. Nei momenti in cui avevo uno sprazzo di razionalità scrivevo per rielaborare quello che mi era accaduto nei giorni precedenti, anche cose minime. Era un periodo in cui stare nella condizione in cui stavo non mi piaceva, ero fermo e non volevo evolvermi, facevo il pazzo e poi mi dicevo “dammi un momento a luci spente” e mi calmo. Che è stato poi il modo in cui scrivevo i miei testi, razionalizzavo scrivendo. Con Masemi, l’ultima traccia, ed anche l’ultimo testo che ho scritto, quando ho tirato fuori quel piano, mi sono detto ecco questo è il punto di chiusura del discorso. Con quell’ultimo “Torno in me” finisce il disco e torno effettivamente in me. Tra l’altro, l’ultima volta che lo ripeto la voce è senza effetti, ed è l’unico momento in cui è così.

È stato un faccia a faccia con te stesso da un certo punto di vista.

Sì. C’è stato un momento dopo Litania e il lockdown in cui producevo più per altri che per me, e se da una parte questo mi poteva garantire più lavoro dall’altra però non mi permetteva di dire quello che volevo dire io, cioè: facevo vestiti per quello che volevano dire gli altri. Poi mi sono messo a fare quello che volevo io come volevo io, e con il disco sono effettivamente Io contro di Me, ma allo stesso tempo Io che mi do una mano. Un conflitto volto al bene, come quegli schiaffi da genitore per svegliarti.

Decostruzione musicale e decostruzione di pensieri vanno a braccetto. Ma se da una parte quello che fai con le parole, un’introspezione critica, è qualcosa di molto intimo, molto umano, dall’altra la musica è completamente artificiale, sintetica. Questo crea una strana unione fra umano e dis-umano, tra il linguaggio dell’interiorità più intima e il linguaggio binario del computer. Il titolo stesso del disco, preso dal testo di Metro, richiama questa doppia natura un po’ straniata e straniante.

Il titolo per me ha più significati, uno sicuramente è proprio legato alla metro: però legato dal filo del disorientamento dello stare gettati nella folla accalcata e senza affetto a guardare in basso, senza legami effettivi tra tutte quelle persone, e quindi richiama un po’ l’ansia sociale. Era anche un periodo in cui cercavo di scappare, anche dalle situazioni in cui ero da solo e dovevo per forza parlare con me stesso, e cercavo di stare in compagnia anche senza affetto, per non stare da solo. Inoltre, quando pensavo a come sarebbero dovute essere le canzoni in un futuro live mi immaginavo come uno scenario emocore, intimo di poche centinaia di persone in cui la gente tutta ammassata canta le canzoni.

Apriamo una parentesi giacché hai parlato di emocore: Che percorso musicale hai fatto e cosa ascolti?

Durante la scrittura del disco ho ascoltato praticamente due linee parallele: una appunto emocore, molto cantata ed emotiva, i FBYC La Quiete per intenderci, tutta quella scena lì; ed una invece deconstructed tipo Amnesia Scanner, Sega Bodega, Arca ecc… penso che dal disco si evinca un po’. Io un linguaggio molto basico, compatto e diretto, che ritrovo molto nell’Emo e nello Screamo italiano. Poi certo modifico la voce.

Invece per quanto riguarda il mio percorso, pensa che io non so suonare nulla, almeno bene. Però da piccolo suonavo in gruppi alternative rock, shoegaze, e poi grazie ad un mio amico produttore sono passato all’ambient, e da lì tra mille tutorial ho imparato ad usare Ableton e via. Non mi ho mai voluto imparare a suonare uno strumento, mi piace molto però passare ore e ore attaccato al computer a crearmi e modificarmi i suoni. Penso che la mia tipologia di suono sia molto compatta, perché probabilmente deriva da un’assenza di teoria, e questa ignoranza, questo non avere dei virtuosismi io l’ho rigirato a mio favore, e credo che così la mia musica sia molto mia e se vogliamo anche più diretta.

Una sorta di virtù dell’ignoranza, che però ti ha permesso di creare su misura il tuo suono decostruito.

Esatto, e ti do una chicca, anche a proposito del discorso umano-disumano, pensa che la maggior parte dei suoni dei pad e dei synth provengono da una nota lunga della mia voce.

Hai campionato la tua voce. Hai trasformato la tua voce in un synth.

Esatto, con sample e mix ma di base è la mia voce, perché non sono un campione a spippolare e i preset iniziali dei programmi non mi piacciono, per cui per creare il mood giusto parto dalla mia voce.

Curioso come nonostante le registrazioni che puoi ascoltare la tua voce, per come la sento io ora, ti resti di fatto sconosciuta, e curioso anche che di fatto dietro la macchina ci sia (ancora?) l’essere umano, che dietro ad un lampo denso ed abbagliante di 23 minuti ci siano ore e ore di sudore e di diottrie perse.

Sull’uso de linguaggio della macchina, secondo me è inevitabile. È il primo layer che abbiamo, no? Per dire quando siamo nati o comunque da quando eravamo molto piccoli c’era già internet dentro casa, il computer c’era già. Giusto o sbagliato che sia io so usare meglio il computer che parlare, so scaricare qualsiasi cosa però magari sbaglio i congiuntivi. Siamo figli di questo tempo. Anche il cambio repentino del beat, il ritmo che si rompe, è figlio dei mille pop-up che ci saltano agli occhi in ogni momento. Non siamo più abituati all’attenzione e quindi mi chiedo che senso ha fare una traccia lunga e ripetitiva?

Sono d’accordo, i nostri tempi di riferimento sono i 15 secondi delle storie o il minuto scarso di tiktok.

Sì, infatti siamo poi portati a condensare il più possibile tutto in un’immagine o in un breve video, e non penso sia una cosa necessariamente negativa cercare di rendere la densità. Dire tutto nel meno tempo possibile è anche una sfida. D’altra parte con tutti gli stimoli legati al mondo della tecnologia e dei computer oggi sia molto più semplice conoscere il Resto, rispetto a noi stessi. Penso che l’umano declinato del senso dell’introspezione oggi sia un privilegio. Anche se forse le stanno cambiando a proposito: la pandemia ha fatto cambiare un po’ le cose costringendoci ad un rapporto costante con noi stessi, per cui volenti o nolenti ci siamo dovuti guardare allo specchio.

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