Un ritratto magico di Israele attraverso le storie di Quattro madri

Amal, giovane donna israeliana, si dispiace per essere stata abbandonata dal marito subito dopo la nascita del primogenito maschio. Dello stesso avviso però non sono le tre generazioni di donne che la precedono: tutte grate poiché è stata posta fine a una maledizione che condannava di madre in figlia la loro famiglia. Da Mazal, la sventurata da cui era partito tutto, fino a Gheula, la ribelle ideologicamente di sinistra. Quattro madri, caratterialmente diverse, ma unite da relazioni amorose travagliate e da una linea di prole tutta al femminile.

Quattro madri – pubblicato per la prima volta nel 2000 e recentemente riproposto da Fazi in una nuova veste – è il primo romanzo di Shifra Horn, autrice israeliana che anche nelle successive sue opere ha posto il suo interesse nei confronti della sua nazione, delle sue contraddizioni e del ventaglio magico di umanità che lo popola. E credo sia importante scegliere come punto di apertura di un proprio percorso personale un’opera che difatti si volta al passato nel tentativo di ricordarlo, imprimerlo, far sì che sia guida.

Mazan, Sarah, Pnina Mazal, Gheula. Ogni donna raccontata dalla Horn rappresenta un universo a se stante, unico. Quasi autonomo in una rete familiare così dissestata per certi versi, quanto continua per altri. Attraverso le figure di donne forti si dispiega la storia della nascita di una nazione, della guerra; non soltanto eventi tragici, anche il semplice e naturale mutamento delle abitudini frutto di processi lenti ma inarrestabili. Da Sarah a Pnina Mazal arriva la necessità di ricevere un’istruzione, fino a Gheula e la definitiva emancipazione come donna e quindi individuo in grado anche di sviluppare una coscienza politica.

Attraverso le vite di queste donne si snocciola la storia dell’Israele del secolo scorso, ma si vive soprattutto la tradizione. L’opera della Horn si avvicina al realismo magico dei sudamericani, stringe la mano alla Allende e alla sua casa degli spiriti, realizzando un microcosmo al femminile intriso di misticità e leggende. E se da un lato credenze popolari sembrano vincolare la ragione, dall’altra arricchiscono lo spirito, infondono all’esistenza quel pizzico di magia in più che nessuno riesce ancora a spiegare. Leggendo si accompagnano così i personaggi in un viaggio intimo e seducente, di cui è giusto non anticipare nulla.

La scrittura della Horn è densa, a tratti quasi pesante. Il romanzo non scorre come un fiume in piena, ma si prende il suo tempo dando ad ogni dettaglio la sua importanza. È un’avventura ricca di suggestioni, di acqua di rose e gelsi da ripiantare. Di maledizioni e condanne, ma anche di amore e di sesso. Si sente l’eco dei sensi, non sempre lucidi – spesso incontrollabili. Un romanzo vivido che ritorna alla carne, ai bisogni elementari, anche a quella ingenua necessità di credere e farsi condizionare dalle parole dei pazzi.
La lettura ha i tempi della vita: non sempre ritmati e incalzanti, a tratti anche annoiati – e la presenza di pochi dialoghi non aiuta. Ogni tanto infatti si subiscono la stanchezza e l’abbondanza di dettagli. Eppure, giunti alla fine, si ha la sensazione che tutto sia stato, in fondo, al suo posto.

Le vite di queste quattro donne vengono racchiuse in una bolla calda e accogliente, dai confini labili violati occasionalmente da riferimenti geografici, dagli spostamenti, dalla sopraffazione di contingenze esterne, estere e politiche. Ma è la stessa bolla che si fa custode del ricordo e della storia. Nessun particolare della vita degli individui coinvolti viene dimenticato; Shifra Horn riporta anche quelle leggende facilmente sfatabili che però contribuiscono a definire l’anima di un territorio.
Amal riscopre la storia delle donne che l’hanno preceduta, del sangue da cui ha preso vita, guardando a sé e al figlio. Ciò che è rimasto e ciò che sarà, con la consapevolezza di possedere un patrimonio da fissare nella memoria, da proteggere affinché diventi faro verso un futuro – per fortuna – tutto ancora da costruire.

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