Understatemens | Arto Lindsay chiude la Trilogia di New York delle OGR di Torino

Chiusura in grande stile della rassegna Avant-Garde Portrait di New York delle OGR con Arto Lindsay, storico fondatore della No Wave newyorkese alla fine degli anni Settanta con il gruppo di stra-avanguardia DNA. Un cerchio che si chiude perfettamente, se consideriamo che la rassegna era stata aperta il 17 febbraio, un mese preciso preciso prima, dai Blonde Redhead, che da un brano dei DNA prendono il nome e dalle chitarre sghembe e scoordinate di Lindsay moltissime sonorità della loro prima fase, prima di intraprendere strade lontane da queste dissonanze almeno quanto quelle su cui si è incamminato più di recente Lindsay, avvicinandosi negli ultimi anni alla bossanova e alle musicalità brasiliane che lo ricongiungono con la sua patria ideale.

Certo, è apparso un po’ spoglio e minimale, il palco delle OGR, rispetto agli spettacoli a cui ci siamo abituati di recente. Niente luci stroboscopiche né grandi apparati scenografici, solo qualche faretto a illuminare dall’alto la figura piccola e dimessa di Lindsay al centro, che qualcuno che preferiamo non riportare ha definito “da pensionato statale”, affiancata ai due lati da quelle sedute dietro la tastiera del sound-designer Stefan Brunner e di Ikue Mori, che con Lindsay ha condiviso numerose avventure fin da quei primi anni dei DNA, dove è stata batterista e compositrice. Forse è più facile immaginarcelo in uno dei soliti piccoli club bui, questo pezzo di storia del rock, piuttosto che in un locale così ampio e di richiamo, che tuttavia si presta perfettamente all’esperimento acustico riprodotto in sala, che prevede otto casse posizionate intorno al pubblico in cui il suono si distribuisce in modo incostante e disomogeneo per aumentare il senso di vertigine prodotto dalle sonorità delle chitarre.

Foto di Giulio Pecci, tappa romana di Arto Lindsay

Ma se all’inizio sembra quasi smarrito, Lindsay, quasi chiedere permesso, dopo un “buonasera” discreto, a bassa voce, imbraccia la chitarra e negli occhi ha lo sguardo determinato che abbiamo incontrato nei documentari di cui abbiamo fatto incetta, noi che non abbiamo potuto vivere l’intensità di quel periodo mitico che ha dato i natali a tutte le forme di sperimentazione noise dai Sonic Youth in poi. Le mani si muovono sapienti negli spazi più impensabili della tastiera della peculiare chitarra a dodici corde accordata secondo tonalità indistinguibili, per formare muri di riverbero immediatamente riconoscibili dagli appassionati, che sono ripetutamente e meticolosamente graffiati da sottili ghirigori fuoritempo o lacerati da zampate in dissonanza: quella peculiare tecnica che è stata denominata “tecnica estesa” da Brian Olewnick, il primo a riconoscerne la cifra specifica d’autore, mentre la maggior parte dei critici incluso il celebre Lester Bangs ha continuato a definirlo rumore.

Si presenta col suo ultimo lavoro Cuidado Madame, Arto, uscito ben tredici anni dopo Salt, un intensissimo disco che è quasi un testamento in cui l’artista, musicista, produttore prova a contenere le sue diverse anime, destreggiandosi tra bossanova e free jazz, tra le schitarrate noise e la languida melodia del canto in portoghese, e per un’ora e mezzo ci trasporta in un altro mondo, regalandoci il privilegio di poter assistere ad una delle sue performances quando ormai i più avranno pensato che magari era ora di ritirarsi dalle scene. I pezzi nuovi si inseriscono di fianco a quelli più vecchi, rivisitati nel nuovo allestimento a tre e integrati nel suono più eclettico degli ultimi lavori di Lindsay, in un mosaico che ci permette di ammirare in prospettiva dove ci hanno portato questi quarant’anni di sperimentazione, con la chitarra che trova la sua strada inserendosi tra synth e percussioni digitali, mentre la voce di Arto sale come una litania che ci trasmette la nostalgia per posti in cui non siamo mai stati: una saudade in distorsione malinconica come poche.

Peccato che il pubblico reagisca poco, sia per presenza, sia per partecipazione, attratto forse anche in questo caso più dalla venue che dal nome. Una buona parte va via durante l’esibizione, ritenendo la lunga scaletta un po’ eccessiva. Lindsay non sembra farci caso, mentre continua ad alternare i suoi brani a chiacchierate scomposte che alternano l’italiano al portoghese all’inglese. Noi siamo rimasti fino alla fine in contemplazione di questo piccolo miracolo, questo ometto che muovendo le mani sulle corde di una chitarra senza assumere pose epiche è capace di tirarvi fuori dei rumori che prima di lui nessuno aveva ritenuto potesse essere possibile.

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