Uzeda – Quocumque jeceris stabit

Otto tracce nuove, poco più di una mezzora di musica, tiratissima, ruvida, purissima. Suona così Quocumque jeceris stabit, quinto disco della leggendaria band siciliana, nata a Catania nel lontanissimo 1987. Cinque ragazzi appassionati di musica americana, della meglio gioventù americana, quella che parlava un linguaggio fatto di vera musica indipendente, di rock, noise, hardcore punk, post hardcore. La medesima scena animata dal talento musicale e produttivo di Steve Albini – diventato poi loro amico e produttore. Quocumque jeceris stabit nasce a valle di una masterclass tenuta proprio dal leggendario produttore di Pasadena nei veronesi Sotto il Mare Recording Studios di Luca Tacconi, punto di arrivo di brani suonati dal vivo nei loro tour in Europa e negli States fino a trovare loro forma definitiva e compiuta davanti ai partecipanti alla masterclass, quindi mixate da Bob Weston nel suo Chicago Mastering Service.

L’apertura, affidata a Soap appare quasi una dichiarazione programmatica d’intenti: la voce di Giovanna che grida “I swear” – ci catapulta senza troppi convenevoli dentro tutta la carica di cui è capace la band. Un giro di chitarra, le corde allentate del basso, i colpi netti e decisi della batteria. C’è subito un profumo fortissimo e inconfondibile che sa di nineties – non certo quelli che si affacciavano già patinati verso il nuovo millennio ma di quelli che si portavano dietro, all’interno dell’amalgama sonoro, nel dettato di tempi ora precisi ora affascinanti e sghembi, il fascino delle cantine oscure della fine degli anni ottanta.

In Deep Blue Sea la voce di Giovanna entra su un tessuto lievissimo costruito dai suoi compagni di questa lunga avventura. La batteria è lì a dettare un tempo leggero che, come un metronomo impazzito, cresce fino a rompersi mentre la voce sale alta. È un brano di contrasti che mette in gioco una componente quasi jazzistica nel fraseggio come nella natura del dialogo tra le diverse voci musicali che ne tessono lo scheletro con la voce di Giovanna che è qui secca, ruvida, trattenuta, come una prigioniera che prova a spezzare le catene che la opprimono.

Speaker’s corner è aperta sempre dalla voce di Giovanna che prova a schiarirsi ed è tutta costruita su un ipnotico giro di basso. E quanto basso c’è in questo disco, quanta passione, quanto divertimento è possibile intravedere tra le tracce, i suoni. Quanta onestà c’è in quattro persone che restano attuali e credibili – perché dentro al loro mondo, al loro suono, alle loro idee – che non provano e nemmeno vogliono provare a inseguire una moda o un suono che sia accattivante. Perché ciò che cercano – e trovano puntuale – è il loro suono, la loro visione musicale, il loro mondo elettivo che in tanti anni non hanno tradito nemmeno per un istante.

Ma è la quarta traccia, Mistakes, a creare uno scarto impressionante. Su un tappeto vocale che sa di liturgia e che richiama così da vicino le atmosfere più calde e umbratili della migliore Patti Smith, la voce di Giovanna è una preghiera sommessa che parla a se stessa fino all’ingresso del basso – qui davvero enorme – sulle cui corde le dita di Raffaele Gulisano danzano in un baccanale dionisiaco insieme infernale e scanzonato come di un demone ragazzino – mentre la chitarra di Agostino Tilotta e la batteria di Davide Oliveri costruiscono con la voce un dialogo fatto di specchi frammentati e rotti, bordi taglienti e riflessi abbaglianti. È godimento puro, è sorpresa davanti a un affiatamento che si percepisce umano prima ancora che professionale come sa bene chiunque abbia avuto la fortuna di ascoltarli dal vivo. Gioia, energia, una trance esecutiva dove gli spazi sono riempiti da una complicità di sguardi e di affetti che è difficilissimo trovare dentro le complesse dinamiche che animano una band. È un crescendo che porta al minuto 2:30, all’esplosione con cui Giovanna dà sfogo a tutta la rabbia possibile. È un grido acre, denso, disperato che deflagra con energia intatta e cristallina, è rabbia pura, reale, è testimonianza, mai posa; è fedeltà a un modo viscerale e combattivo di stare dentro le cose, dentro la vita, dentro a un mondo che sta sempre più stretto perché misura ogni istante il solco abissale che il reale quotidiano scava dentro l’utopia dell’ideale.

Mistakes è forse il pezzo più complesso della loro storia. Ha una bellezza commovente, quella di un’energia che non ha ceduto al passo degli anni, delle disillusioni, delle promesse che non sono state mantenute. È un modo per guardarsi negli occhi e dirsi “siamo ancora qui, siamo ancora noi, il mondo è ancora un posto pieno di ingiustizie, e non siamo stanchi, non ci arrendiamo nonostante tutto, combatteremo senza tradire noi stessi”. Un brano talmente forte che quasi lancia un’ombra lunga sui pezzi che rimangono.

Nothing but the stars è un pezzo con una grandissima carica emotiva e d’atmosfera, onda d’urto a tratti quasi industrial che non arretra d’un passo. I 5’11” minuti di Red ne fanno il brano più lungo del lotto che per gran parte del tempo riesce quasi a ridurre i giri per poi concludersi nell’ennesima strabordante esplosione di energia. Blind è un blues sghembo, d’impatto, denso e violento che ci conduce alla conclusiva The Preacher’s Tale invettiva in tempi dispari e disparati che chiude il disco.

Quocumque jeceris stabit (su etichetta Temporary Residence Ltd.) è un atto di resistenza. “Ovunque tu lo lanci, resterà in piedi” motto del triscele dell’Isola di Mann, dialogo a distanza con il simbolo della Trinacria siciliana, tra mari e onde, traversate come anni che passano, come problemi che non si risolvono, come una lotta da non dimenticare.

Quello degli Uzeda non è solo un modo di giocare coi tempi – sarebbe fin troppo scontato per le loro caratteristiche: è un giocare col tempo. È dentro un meccanismo di riflesso continuo tra il suono e il silenzio che non è sua assenza ma sua attesa che si consuma la costruzione alchemica del loro suono. Materico e misterioso a un tempo, concreto eppure capace di affondare le proprie radici più profonde dentro un altrove quasi mistico. È come se gli Uzeda avessero la capacità di dissolverlo, il tempo: fenomeno di autentico culto tra appassionati, musicisti e addetti ai lavori, i quattro – che scelsero il nome di una delle porte della splendida città etnea – sembrano quasi essere diventati loro stessi una porta d’accesso a un universo sonoro che non suona mai passatista perché sorretto da un’identità, da un credo, da una fedeltà, da una coerenza che tiene unite la musica che suonano, ciò che dicono, le proprie idee, la direzione delle loro stesse vite che ne hanno fatto negli anni una tra le realtà più apprezzate e stimate dell’intero panorama musicale internazionale. Quocumque jeceris stabit sta lì con le sue tre punte a ricordarci questo: che si rimane in piedi, che non ci si arrende, che non si può essere sconfitti fino a che si è profondamente se stessi.

Exit mobile version