Verbal – S/t

Voto: 7/10

Sei personaggi, sospesi tra reale e fantastico, con i loro nomi e le loro storie nascoste tra le rumorose pieghe di un potente post-rock/noise strumentale: è l’universo parallelo dei Verbal, quintetto bergamasco composto da Isaia Invernizzi, Marco Parimbelli, Sebastiano Ruggeri, Gregorio Conti e Marco Torriani, che esordiscono con un ep omonimo dalla struttura polimorfa e i suoni taglienti. Sei personaggi, uno per ogni traccia, per ciascuno dei quali l’entrata in scena si trasforma in una poderosa esplosione, in una distorta e quasi ossessiva tensione sonora, spesso portata all’estremo e caricata di un’emotività psicotica.

È un teatro oscuro ed asfissiante quello dei Verbal, un palcoscenico cupo che vibra sotto i colpi di distorsioni, campionamenti e grida di dolore, mentre sprazzi di luce fanno capolino qui e là più per accecare gli spettatori che per mostrare ciò che avviene sulla scena.

Il primo strano figuro con cui fare i conti è il fantomatico signore del noise Double D Marvin, introdotto dalle rapide sferzate di una chitarra nevrotica, alla quale si aggiungono man mano suoni sempre più corposi, campionamenti tratti da Free Jazz di Ornette Coleman ed echi delle Andrew Sisters, in una miscela esplosiva di rabbia e confusione. Neanche il tempo di rifiatare e il distruttivo magma sonoro dei Verbal investe di nuovo l’ascoltatore, trascinandolo indietro nel tempo fino al 26 maggio 1828, data in cui fa la sua improvvisa apparizione in una piazza di Norimberga, un ragazzino vissuto per anni incatenato al pavimento della sua cella: è Kaspar Hauser, o almeno questo è l’unico nome che il giovane riesce a ripetere assieme a poche altre parole, “Scheiße meine kleine“, qui gridate all’infinito tra suoni acuti che gli provocano violente e convulse reazioni.

La terza traccia, sospesa tra psichedelia anni ’70 e riverberi verdeniani, introduce sulla scena Francisco Vázquez de Coronado, esploratore spagnolo noto per le sue fallimentari ricerche di Quivira, un’improbabile terra dell’oro che si rivelò invece essere un misero villaggio di capanne. Non ha bisogno di presentazioni, invece, il quarto personaggio della saga-Verbal: in “Orwell”, l’autore di romanzi quanto mai attuali, come “1984” e “La fattoria degli animali”, è presenza costantemente in primo piano, con la sua voce campionata, alternata a grida disumane di sottofondo e a sonorità che diventano sempre più claustrofobiche, a dissertare sulla natura dello scrittore e su argomenti più personali.

Si giunge, così, all’accoppiata finale che contrappone il comico inglese Benny Hill, negli oltre otto multiformi minuti di Benny Hill (hates sports), ad uno dei cognomi giapponesi più diffusi, Kobayashi. La prima, tra variazioni di ritmo ed esplosioni, sembra voler aprire una finestra sui lati più oscuri della comicità e sul volto diabolico che può celarsi dietro una maschera da clown; la traccia finale, musicalmente più “ariosa” e pacata, sceglie invece un nome che è tutto e nulla, identità e anonimato, un personaggio senza volto a cui potrebbe corrispondere ciascuno di noi.
Echi, riverberi e grida si placano, lentamente cessano e il sipario si chiude lasciando un silenzio che è stupore e smarrimento, come un senso di timorosa catarsi accentuata dal contrasto con il caos di pochi minuti prima e dai sei ridacchianti fantasmi che ancora si aggirano tra le poltrone del misterioso teatro. Davvero un buon assaggio di ciò che i Verbal, mescolando rumore ed emotività, sembrano riuscire a creare con successo.

Tracklist:

  1. Double D Marvin
  2. Kaspar Hauser
  3. Coronado
  4. Orwell
  5. Benny Hill (hates sports)
  6. Kobayashi
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