Verdena @ Estragon, Bologna

È come un treno che ti porta lontano, a casa o dentro di te. Ha il sapore dell’addio e di quando si torna dopo del tempo nella propria città e appare tutto dolcemente immobile e, lo sai, è parte stessa del concetto di avere delle radici. Quelle che cerchi di strapparti via e che ti fanno finire nelle solite strade già percorse. Quando si ritorna è l’accorgersi che qualcosa è cambiato a farti del male ma, ogni tanto, nelle loro continue evoluzioni, alcune cose sono in grado di trasmetterti le stesse emozioni. Sono cose preziose da custodire, così fragili da temere che utilizzandole troppo si possano rompere, ma non è mai così, o, perlomeno, non dipende sempre dall’uso che ne fai. Ci pensa il tempo a farti sentire come se non ne fosse passato che un soffio, a farti ritrovare sempre lì, con la stessa faccia, attonito. Sono i soliti vizi e le stesse necessità che nessuno ti può togliere ma che qualcuno, a volte, riesce a raccontarti anche se fai parte di una storia solo dandone un tuo senso personale. E non è detto che debba essere tutto felice e spensierato, perché i Verdena ce l’hanno fatto capire, che anche il buio ha la sua poesia e si può provare a costruire qualcosa. A volte capita di credere che quello che stai sentendo te lo meriti davvero, ed è bello farlo solo a postieriori, e ti domandi se ce la meritiamo una band di questo tipo in Italia, se non fosse stato giusto lasciarla partire e farne godere tutti il più possibile, per dare anche a loro un briciolo di quello che hai provato tu. Forse siamo abituati a guardare sempre troppo in là, anche se vorremmo stare ancorati a quella terra che tutti, prima o poi, tradiremo. Finché ci siamo, però, è giusto viversela e ci basterà il tempo per abbandonare i nostri eroi, a mantenerli ci penserà la storia, che ci taglia sempre fuori.

È capitato che, per una volta, uscendo dall’Estragon di Bologna fradici di sudore e con la strada da fare nel buio, ci sentissimo a nostro agio, sicuri che tutto quello a cui avevamo assistito fosse tra quelle certezze su cui poter fare ancora affidamento. E, qui, ritorna la spinosa questione su quanto la dimensione dei Verdena sia a sé stante, lontana dai cliché a cui la nostra musica ci ha fatto abituare, così composti mentre il caos che esce dagli amplificatori rimbomba tutto attorno finché, provati dall’affetto e dalla stanchezza, si lasciano andare, ma è ancora troppo presto e ci sono altre storie da raccontare prima. Ad accompagnarli in questo tour ci sono i Jennifer Gentle di Marco Fasolo e Liviano Mos, sopravvissuti ai cambi di protagonisti ed etichette, di cui si parla sempre poco ma dall’indiscussa qualità, così straniera da farli firmare per la Sub Pop. Un’eccezione che, qui da noi, non ha mai ricevuto il seguito che meriterebbe. Più che una band di supporto è un concerto nel concerto, una storia che, già da sola, basterebbe per tutti. Questo modo particolare di approcciarsi alla musica, in grado di sperimentare e recuperare i classici, è uno dei tanti motivi che li nasconde un po’ nel marasma della nostra musica, a volte troppo pigro per indagare nel modo giusto, al di là dell’inglese e delle distorsioni ritmiche in grado di sorprenderti a ogni attacco. Precisi e puntuali, che sembra una abitudine scontata ma rispettare gli orari non lo è mai, abbandonano il palco fra gli applausi, anche quando tornano solo per smontare le attrezzature e, davvero, non è solo per quell’evidenza che si sta pian pian manifestando. Dopo quattro anni, davvero, i Verdena stanno per suonare di nuovo.

Quando salgono sul palco senti un sussulto, li percepisci silenziosi abbracciare gli strumenti ma non li vedi, è tutto buio, poi partono, le luci ti accecano e Ho una fissaAlieni fra di noi ti stordiscono, buttato come sei in un concerto che sembra non essere mai finito. Tutto quello per cui avevi aspettato ce l’hai davanti e non sai se essere felice o triste perché tutto dovrà, dannatamente, finire. Serve poco tempo perché Un po’ esageri ti fa capire che hai deciso di vivertela e basta, fra i ragazzini sbronzi che barcollano e quelli che arrivano di corsa dalle retrovie e si fanno spazio a spintoni, e tutto quel caldo e la voce che non ci arriva mai. I brani di Endkadenz girano a mille, freschi e oliati a dovere dalle sessioni in studio più recenti. L’ingresso di Giuseppe Chiara nella formazione live si percepisce soprattutto nei pezzi di Wow, che suonano diversamente rispetto al passato ma, anche qui, si tratta di impreziosire un prodotto capace di rinnovarsi in continuazione. Così come la falsa partenza di Loniterp che si recupera in un finale prolungato ed esplosivo, fra la batteria di Luca Ferrari e i giochi di luce mentre le persone non sanno più come e quando applaudire, più per un entusiasmo in ascesa che per un pessimo tempismo. Ci sono alcuni intermezzi, fra una canzone e l’altra, che aggiungono una nuova dimensione al loro mondo già così sfaccettato. È un modo più giocoso di approcciarsi alle cose, un colpo che abbassa la tensione per poi riappropriarsene alla prima nota di Canos, come in un vortice senza fine, quel colpo dell’endkadenz che tanto ci hanno provato a spiegare ma che, solo ora, ci appare così chiaro. Il piano inizia a reclamare il suo spazio e cambia più volte il suo protagonista, il tempo passa veloce, ad ogni colpo c’è una vittima che cade nel suo mondo, felice di farlo insieme a tanti altri. Siamo un po’ di parte ma, all’arrivo di Inno del perdersi, capiamo di non aver sbagliato troppo nel considerarlo uno dei pezzi più intensi dell’ultimo album. C’è spazio per tutto, per i brani di Wow e Valvonauta, per rifacimenti jazz in chiave post rock e per No mind in my mind di Fasolo, letta come una poesia da Alberto Ferrari, a sottolineare quel profondo rapporto che c’è fra le due band e che esula il solo lato artistico. È un lampo quello che, dopo Rilievo, li manda fuori dal palco, ritornato buio, mentre tutti sanno che non è ancora finita.

 

Abbiamo ancora tempo per Luna e Ovunque, fino alla finale Funeralus, che se li portano via, insieme a quelle speranze adolescenziali di poter sentire di nuovo qualche brano de Il suicidio del Samurai, ma non ce la prendiamo, non possiamo farlo. Si lasciano finalmente andare, i cari vecchi Verdena, davanti agli applausi e alla commozione. Dopo tanto tempo lontani dal palco, e un tour di sold out ripetuti, c’è posto anche per un po’ di commozione, quella che si deve provare in quei rari casi in cui, a una proposta artistica caratterizzata da un livello sperimentale altissimo, corrisponde un apprezzamento pressoché totale dalle persone di cui sanno circondarsi, più che dalla critica sterile e macchinosa. È una questione di dedizione e di rispetto verso la propria arte e verso le persone che, tramite il loro supporto, ti permettono di produrne altra. È un atteggiamento che appare ancora più lampante quando risalgono sul palco per un’ultima volta insieme a Fasolo, con la cover stravolta di Mother di John Lennon, mentre la gente iniziava già a tornarsene a casa soddisfatta. Superare i propri limiti. È una cosa rara, qui da noi, permettere a un artista di dedicarsi solo alla cosa più importante, in questo caso fare musica, e quando accade il risultato è assoluto. Così come Endkadenz e, prima, Wow. Bisogna dargli fiducia e lasciarli lavorare, metterli nelle condizioni di poterlo fare e fare in modo che lo sappiano perché, quello che ne esce, e i Verdena lo dimostrano ancora, è qualcosa che, proprio, non possiamo permetterci di perdere. È una lezione che serve ai tanti che si lasciano andare o per quelli che pensano sia già tutto finito quando riescono a raggiungere un effimero posto nel mondo grazie al loro lavoro, ed è un’etica e un’indole che rischiamo di aver perso da tempo.Non è che un inizio, lo è sempre, in tutte le cose, e i Verdena sono capaci di dimostrarlo ancora una volta. Per quanto possano essere già in alto, con loro, è sempre un cominciare da zero.


Tutte le foto sono a cura di Andrea Buratti


Setlist:

Ho una fissa

Alieni fra di noi

Un po’ esageri

Sci desertico

Loniterp

Vivere di conseguenza

Contro la ragione 

Le scarpe volanti

Derek

Starless

Attonito

Lui gareggia

Canos

Nevischio

Trovami un modo semplice per uscirne

Razzia Arpia Inferno e fiamme

Inno del perdersi

Valvonauta

Puzzle

Scegli me (Un mondo che tu non vuoi)

Muori delay

Rilievo

Encore:

Luna

Ovunque

Don Calisto

Funeralus

Encore #2:

Mother w/t Marco Fasolo (John Lennon cover)

 

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