L’argine che non contiene | Intervista a Veronica Galletta

L’argine devia, ma non estingue. Contiene, ma non risolve. Su questa contraddizione si regge la vita di Caterina, ingegnere, responsabile dei lavori per la costruzione dell’argine di Spina in pianura padana. Mentre affronta la fine della storia d’amore con Pietro, Nina si scontra con un mondo professionale dominato da figure maschili e con i nodi irrisolti del proprio passato. Il rapporto con la propria terra, con quelle radici che a volte emergono fino a strozzarla.

L’argine è una necessità, è il suo posto nel mondo. L’unico modo che Caterina conosce per sopravvivere ai problemi che la attanagliano e affiorano costantemente nel romanzo, a partire dagli imprevisti tecnici e dalle proteste degli ambientalisti al cantiere. Questo spazio fragile e precario dove può sentirsi viva e libera, dove può parlare con chi vuole sempre, anche con chi non c’è più.

La scrittrice siracusana Veronica Galletta, da ingegnere, ha lavorato quasi vent’anni per un ente pubblico. Nel 2020 ha vinto il Premio Campiello Opera Prima con Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni), già finalista al Premio Calvino nel 2015. Nina sull’argine (Minimum fax) è entrato nella dozzina del Premio Strega 2022.

Veronica Galletta

Partiamo dal genere. Nina sull’argine si colloca a metà tra testo di letteratura industriale e romanzo di formazione, con un elemento fantastico sullo sfondo. Nina infatti parla con un fantasma. Da dove nasce l’esigenza del realismo magico?

Avevo l’esigenza di raccontare una storia. Una storia di lavoro. Ho cominciato a scrivere nel 2013, da quel momento non ho mai smesso di lavorarci. Quello che ho cercato qui di rappresentare è un lavoro che ho svolto per molti anni, un vero e proprio microcosmo fatto di relazioni in contrasto tra loro, attorno a cui ruotano figure molto diverse e che si conclude attraverso la realizzazione di una grande opera pubblica. Una volta che ho deciso che storia raccontare ho capito che dovevo usare parole tecniche, da ingegnere, non potevo raccontarlo diversamente. Verricello, ponteggio, sono parole che non hanno termini alternativi in grado di rendere l’atmosfera precisa che volevo rievocare nella mia narrazione. Ho sempre creduto molto nel linguaggio tecnico, ho lavorato sulla parola, cercando di sfruttare la sua forza evocativa.

All’inizio non mi sembrava di star scrivendo un romanzo, bensì un resoconto, finché non è apparso Antonio. Si trattava di un personaggio morto, ma in fondo era proprio quello che cercavo. Non mi sono posta il problema dei generi, ho cominciato a scrivere in maniera molto libera. In seguito ho dovuto studiare gli stilemi dei fantasmi, Giro di vite di Henry James, Requiem di Antonio Tabucchi, tutti studi che mi hanno fatto capire come regolare meglio l’idea di scivolamento che avrebbe dominato questo romanzo.

La tecnica del discorso diretto continuo, cioè non virgolettato, usato efficacemente negli ultimi anni da Kent Haruf e Josè Saramago, è utilizzato ormai sia nelle narrazioni in prima persona per esprimere l’idea del flusso di coscienza sia in quelle in terza, come in questo caso. Da dove nasce l’esigenza di questo strumento narrativo e cosa vuole esprimere questa precisa scelta stilistica?

Partiamo dal presupposto che se c’è un elemento oggettivo in comune con il mio precedente libro è l’uso della terza persona, perché paradossalmente mi permette di scrivere in maniera più libera. Con il narratore in prima persona, le mie storie assumono troppa rigidità. Il discorso diretto continuo è stato dettato dall’esigenza di entrare e uscire da Caterina, è stato un esperimento. Quest’uomo con cui parla, con il procedere della storia, si capisce che è un fantasma, dovevo liberarlo dalla dimensione terrena e realistica, come anche Pietro, il suo ex compagno. Possono essere un’allucinazione, un amico immaginario, una voce della coscienza. Ho chiesto alla casa editrice di poter togliere le virgolette, di poter sciogliere i discorsi diretti, il che rispondeva per me alla necessità di riprodurre un flusso. Caterina non è un personaggio fluido, ha la rigidità dei burattini. Pensa a scatti, ragiona così. Doveva essere un personaggio disturbante che comunicava il suo fastidio anche attraverso l’organizzazione della frase, e spero di esserci riuscita.

Il cantiere è una perfetta metafora di vita, che si può sintetizzare in una continua azione di costruzione e distruzione. A questo rassicurante vitalismo però si contrappone la realtà dei fatti: dove l’acqua passa, poi ci torna. In base a quanto scritto nel romanzo e a quanto raccolto nella sua vita, l’immobilismo è una realtà o una proiezione dell’io per giustificare la propria inerzia?

Hai detto bene, credo sia proprio una proiezione dell’incapacità della protagonista. L’umorismo del romanzo è modellato su questa verità di fondo. Non si tratta di comicità, ma di un umorismo capace di svelare una tragicità esistenziale, che è un elemento a cui ho dato grande importanza. È un riso che scarica e permette di lavorare meglio. Pensiamo alla storia dei massi disegnati. Tutti i momenti di ilarità permettono di andare avanti, sono una chiave di sopravvivenza.

Le isole di Norman era un libro sulla solitudine. Qui al fianco di questa sensazione emerge una forma di alienazione che costeggia il lavoro e la vita professionale di Caterina. Crede che Caterina sia un po’ un’evoluzione di Elena o in fondo la loro condizione le faccia sentire più sorelle?

Caterina è un’evoluzione di Elena, è in uno stadio più amaro e consapevole della vita. Caterina è andata via per non andare da nessuna parte, alienazione è una parola giusta. La solitudine è un aspetto non solo legato al lavoro, ma al contorno sociale. Per il lasso di tempo descritto nel romanzo non ho avuto modo di descrivere il suo compleanno, ma forse è stata una scelta narrativa rivelatoria. L’avrebbe passato come ha passato Natale, sarebbe rimasta sola con il suo gatto sulle ginocchia.

Il titolo racconta una condizione liminare della protagonista. Nina vive sull’argine. Quella dell’argine, come struttura che contiene ma è sempre soggetta a pressioni, coincide con l’instabilità del margine, che è un’immagine centrale nella narrativa degli ultimi anni. Per lei oggi cosa significare vivere il margine? E dove margine e argine si incontrano?

L’argine è un’opera di difesa passiva, è qualcosa che viene costruito quando nessun altro tipo di difesa è possibile. Oggi siamo tutti più fragili, più instabili, è una questione di equilibrio. L’argine delimita, ti impone da che parte stare, ma è sempre una sconfitta. È un limite dal quale ti sporgi, una finestra, come quella dalla quale la moglie di Bernini, il geometra, minaccia di buttarsi. Tutti i personaggi del resto sono in bilico. Oltre la situazione che sta vivendo Caterina, sappiamo che Bernini sta perdendo la famiglia, l’assessore è un pensionato che soffre la noia e l’inerzia quotidiana, gli operai stranieri convivono con un dolore che ci è sconosciuto. L’argine è anche una barriera linguistica.

“Costruire un argine è una cosa complessa. Bisogna calibrare bene la quantità di terra fin dall’inizio, evitare le corde molli, prevenire i dilavamenti. Perché se si forma una breccia, puoi anche riparare, ma qualcosa rimane. Perché non basta ridipingere la casa e spostare tutti i mobili. Chiudere le fotografie di prima in un cassetto. Anche con la casa tinta e bianca come la sua vita adesso. Pulita, ordinata, lineare. Una traccia rimane. L’argine lo sa. La memoria rimane.”

Abbiamo un po’ tutti sperimentato l’esperienza del margine nel periodo del lockdown. Le chiedo: cos’ha significato per lei quel periodo che poi è coinciso con l’annuncio della vittoria del Premio Campiello Opera Prima? Quale insegnamento ha ricavato da quel periodo di chiusure?

Non so quale sia l’insegnamento più prezioso, di certo è stato un momento di riflessione. La vittoria del Campiello Opera Prima è stato un momento inatteso ed emozionante come pochi nella mia vita. Durante il primo lockdown ho scritto, preparato racconti, reportage narrativi, e li ho scritti nell’ottica di cercare di sdoganare il linguaggio che avrei usato per Nina sull’argine, il mio modo di comunicare. Ho scritto un racconto sul G8 usando la meccanica dei fluidi, e uno sull’ideologia del cemento armato come grande estinto. Mi piace lavorare per accumulazione.

E adesso? Che progetti ha per il futuro?

Sto lavorando a un nuovo romanzo, come sempre.

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