Campare di blog e altre utopie

La settimana scorsa sulle nostre pagine è uscita una gran bella intervista.

Giovanna Taverni ha pescato Gabriele Del Grande, un reporter freelance che in questi giorni potete trovare anche su Internazionale.it con un reportage dalla Siria.

La conversazione con Del Grande è interessante per due aspetti:

  1. Parla di giornalismo 2.0neo-journalism e tutta la nebulosa dell’informazione (o presunta tale) web;
  2. Ricorda, a chi volesse intraprende la stessa carriere dell’intervistato, che non c’è posto per lui.

In effetti il punto 2 è la diretta conseguenza del punto 1. Un po’  tutti abbiamo capito come stanno messi i conti in banca dei quotidiani. Inutile girarci attorno: l’unica posizione aperta a la Repubblica è quella della badante di Scalfari.

Ora non è il caso di piangersi addosso ripetendo cose già sentite. Però qualche considerazione a proposito dell’intervista a Del Grande (e non solo), va fatta.

Be hungry, be poor

A quanto pare c’è un problema. Una discreta fetta della forza-lavoro dei call center della penisola era iscritta a corsi universitari con l’idea di un futuro, che, almeno al momento, non è nella lista dei regali disponibili per Natale.

Detta proprio tutta, la tendenza non è recente. Già da una decina d’anni il parentado scuote la testa sconsolato di fronte all’ennesimo nipote immatricolato in Facoltà a vicolo chiuso. Entrarci non è difficile, molto più complicato è uscirvi con una specie di stipendio e un contratto che non scada prima dello yogurt dell’altro ieri.

Non che agli altri vada molto meglio. Gli ingegneri finiscono a fare il lavoro dei periti (e i periti si iscrivono a Ingegneria), i giuristi, se non è bastato l’esame di procedura penale a minare le fondamenta della loro stabilità psichica, rimandano l’appuntamento con gli attacchi di panico agli anni del praticantato, e via dicendo.

Però ad alcuni va peggio che ad altri.

Piuttosto che ammettere la sconfitta (o semplicemente per procrastinare la resa), molti aspiranti giornalisti tentano, soprattutto sulla rete, di dare un’impronta personale e riconoscibile ai propri pezzi. Di solito seguendo 3 percorsi:

1) i profondi approfondimenti di politica, costume, società

Sono gli amici che ti impestano la home di Facebook con link alla loro ultima analisi del Movimento 5 Stelle. Quasi mai propongono scemenze, certe volte piazzano un pezzo interessante, raramente scrivono con competenza sull’argomento.

Sono articoli che non funzionano per due motivi:

Intendiamoci, probabilmente non vale la pena leggere nessun tipo di opinione sulle primarie del PD. E non è detto che un blogger ignoto scriva peggio o con meno acume di un editorialista del Corriere.

Però, oltre alla non elevata visibilità di vostro cugino a livello nazionale, c’è un altro problema: chi spulcia la rete  per leggere opinioni di perfetti sconosciuti, soprattutto rispetto alla politica, fa parte di una ristretta categoria di scoppiati che, prima di aprire la home di www.tuttelemieopinioni.it, ha imparato a memoria buona parte degli articoli già pubblicati sui maggiori siti di informazione.

Non esiste una riserva vergine di lettori da imbottire con opinioni fritte e rifritte. Forse la mia vicina di casa che pensa il router sia un aggeggio da attaccare all’auto per andare in vacanza e non spendere i soldi dell’albergo troverebbe interessanti le opinioni del blogger ignoto, ma chi usa la rete in maniera anche solo vagamente smaliziata quei punti di vista li ha già letti altrove.

2) non di sola viralità vive l’uomo

Di fronte all’oggettiva impossibilità di esprimere un’opinione originale su tutti gli avvenimenti del giorno, in molti si scoraggiano. E cambiano obiettivo.

Frugarsi la testa alla ricerca della formula giusta per rendere il proprio post virale è un altro classico.

Il termine viralità raramente ha un’accezione positiva. Nel caso della rete spesso significa minuti persi come bambini rimbambiti di fronte a video di bambini rimbambiti o nella lettura di post di nessuna intelligenza.

La cosa più triste, in realtà, non è tanto la viralità riuscita, quanto quella cercata con espedienti da Bagaglino.

E tuttavia mancata.

In ogni caso, alla base di tutti questi tentativi, c’è un fraintendimento: che un post con 300.000 visualizzazioni dia da vivere.

Il vincitore del MIA2013 per il miglior articolo è Quit the Doner, uno che viraleggia più dell’ebola in Angola. Eppure i suo post (così come molti del nostro Alberto Bullado, a mio modesto parere e con le dovute proporzioni), oltre a rientrare bene nei giochi della rete, hanno anche dei contenuti solidi.

Comunque, per essere chiari, non è con i suoi post che Quit the Doner paga le bollette.

3) hate it!

Chi è passato per i primi due step spesso scivola sul terzo.

Se essere intelligenti non basta, se non paga neppure sapersi vendere, vaffanculo tutto!

Nascono così blog e profili Facebook dove si sputa su qualunque cosa. In tali casi il turpiloquio non è facoltativo. Questi esperimenti si risolvono presto in piccoli canili dove ognuno, autori e commentatori, si abbaia addosso.

Tutto si riduce a uno sfogatoio utile per allentare qualche tensione personale. Se Olindo e Rosa fossero passati a Fastweb, sarebbe stata un’altra storia.

*

Il quadro, me ne rendo conto, fa abbastanza schifo. Ma chi volesse intraprendere la carriera giornalistica partendo dal web non deve disperare.

Una soluzione c’è. (scherzo).

La verità è che si tratta di una battaglia quasi persa in partenza.

Tuttavia tempo fa Luca Sofri ha scritto un post interessante rivolto alle orde di giovani aspiranti che lo contattano ogni giorno alla ricerca di uno spazietto nella sua redazione. A un certo punto cita la situazione di un ragazzo che, oltre all’attività di blogger-da-niente, ha aperto anche un sito di scommesse con cui – lui sì, ce la fa – si paga le bollette.

A Sofri questa cosa piace tantissimo. Un po’ come a dire: “Se anche voi fate parte di quello sfortunato macro-strato sociale che non ha avuto un padre ai vertici di Lotta Continua, seguite pure le vostre passioni, ma trovate un modo per mantenervele, perché nessuno lo farà al posto vostro.”

Io con Sofri non sono quasi mai d’accordo, ma questa volta sì.

Aprire un sito di scommesse, vendere creme per l’allungamento del pene o fregare la gente su eBay non sono il sogno nel cassetto di chi si vede al posto della Gruber, ma possono essere un salvagente necessario.

Lo so, è una faccenda che puzza un po’ di sconfitta. Ma, provo a indovinare, l’odore della mensa Caritas è, almeno dal punto di vista emotivo, infinitamente peggiore di quello di una crema-allunga-cazzo.

Exit mobile version