We have never been sad kids | Inverno Fest #4

Quella finta leggenda sul post punk, sui pensieri cupi, le parole grevi. Quella storia che vede stanze buie, persone scure, giacche nere, sguardo in basso e suoni elettrici sovrapporsi senza sosta. È un racconto abbastanza comune e nemmeno così distante dalla realtà. Il post punk negli anni si è trasformato oltre la definizione di genere, imponendosi come un certo tipo di sguardo o filtro attraverso cui interpretare la modernità, fino a trascendere le sue regole stilistiche e diventare una sorta di contenitore estetico, sentimentale e, perché no, ancora fortemente politico. Resistenze, prima ancora che attacchi, che possiedono un linguaggio ben preciso, reciproco, fatto di una richiesta di sudore, fatica e forza senza esclusione di piani. Non c’è una élite, nel post punk, non c’è palco e pubblico, l’uno sono la misura dell’altro. Questo significa che non c’è nessun nome, nessuna scusa, oltre quello che si conquista sul campo e più dai, più ricevi. Non ci sorprende il fatto che finiscano le voci, che le chitarre si spacchino ancora prima che arrivino le 23 di sabato, che il centro della pista si trasformi in un frullatore al secondo pezzo dei Preoccupations qualche esibizione dopo. È quello che vogliamo. Succede tutto in fretta, all’Inverno Fest, come in un sogno duro e metallico. Il venerdì arriviamo con i Deflowered che hanno appena cominciato. C’è una sorta di aria, che gira per il Covo, come quella di un battesimo, del momento zero prima che tutto cominci. È wave, è noise quello che buttano fuori facendo stridere il synth con suoni acidi, coi colpi della batteria e distorsioni di chitarra lunghe ma sobrie ed educate. L’oscuro, dicevamo, nei suoi termini più contaminati. Il passaggio successivo no, il collegamento su cui si fonda il concetto di superamento del punk a tre corde, già a fine anni ’70, che pensava ci fossero molti modi per descrivere la totale assenza dei colori. Siamo timidi, ancora, col passare del tempo il numero aumenta, e aumentano i giri del motore, con l’arrivo dei Yonic South che avevamo conosciuto come costola altrettanto folle dei Bee Bee Sea. La loro è quella scarica garage, del glam che brilla sulle lattine Heineken a bordo palco, sulle corde di Wag, freaks scatenati che scaldano, giocando la partita in termini di riff psych che si rincorrono come in una puntata di Wacky Races. La temperatura, in certi casi, può essere tutto, per gli Yonic South questo significa incendiare chi c’è, dargli pane, birra e poi ancora benzina.

 

 

 

 

 

 

Quando arriva sul palco dopo il check Veronica Torres si accovaccia in mezzo al palco, come per attingere a tutte le proprie forze. Un rito scaramantico, come tanti ne vedremo, mentre la cassa della batteria scandisce il tempo, un battito alla volta, e le prime linee di suono bianco preannunciano l’inizio. Ci mettono davvero poco i PILL per prendere confidenza col palco, partono e non si fermano più. Il punk è un genere che devi supportare, fisicamente e contenutisticamente. La Torres in questo è come un’acerba Patti Smith, urla, prende il basso, fonde il lamento con il sax che si alza in Empathizer, sussurra per Sin Compromiso, colpisce allo sterno, nel rivendicare la propria dignità, senza contrattazione, senza compromesso. Provocare il pubblico è un modo per tenerlo sveglio e portarlo dove si vuole. La forza dei PILL è tutta in questo, negli arrangiamenti free jazz e nella chitarra che usa gli effetti per ottenere suono oltre la distorsione psych, il basso che segue il percorso martellante della batteria. È uno spettacolo vederli muoversi, è uno spettacolo vederli divertire in tutta la rigorosità che li circonda. Se l’anno scorso erano stati gli Idles, quest’inverno è quello dei PILL, per tutta questa serie di ragioni e di situazioni. In un certo senso, lo spettacolo dei ragazzi di New York, limita l’esplosione del country post punk dei Warmduscher, che con la potenza della batteria e degli assoli circondano la teatralità di Clams Baker Jr, cowboy elettronico dei Paranoid London. Il loro è un live gustoso, in cui tutto è al suo posto, quando rientra nell’anima sicura di Sulcano Adamczewski (Fat White Family) o nelle corde di Ben Romans-Hopcraft, vero magician. Questo mondo è grande, ma poi infinitamente così piccolo che le storie convergono tutte insieme, in un’unica grande celebrazione.

 

 

 

#DAY ONE

 

 

 

 

 

 

 

Il ritorno è sempre un po’ più complicato, per gli errori che compi, bruciandoti troppo velocemente, perché il rischio di trovarsi in tanti è un peso maggiore, una responsabilità. Ci osserviamo fra le persone, sin dallo start del sabato. Qualcuno si è già visto, tanti no, e ritroviamo gli stessi segni, dentro o fuori. I Submeet salgono sul palco con un preciso obiettivo, rompere tutto, i denti, le ossa, forse in un modo addirittura eccessivo. Ma è violenza artistica, quella naturale in ogni atto, ti senti dire che sono sul pezzo, questi ragazzi ci buttano tutto, e spesso è anche più determinante. La chitarra è la loro, viene lanciata fra il pubblico, poi rotta, gli chiediamo scusa per non essere stati pronti, ma poi li vediamo davanti ai Preoccupations, avere ancora energie. Glitch e noise si fondono nel loro noise puro, urlato, fradicio. Un piccolo tubo catodico alle loro spalle frizza immagini distopiche su immagini distopiche che si spengono con un suono bianco alla fine della loro esibizione.

 

 

 

 

 

 

In questo secondo giorno le stanze del Covo sono più difficili da attraversare. La densità è un concetto fondamentale anche per la musica post punk, per il suo ambiente almeno. La densità non permette di scegliere, costringe a portare le cose in fondo, colpire o scappare. È anche quello che rende le stanze più strette, le relazioni meno costruite. I Go!Zilla concentrano la formula del fuzz all’inglese che prevede la necessità di insistere su lunghe variazioni distorte anche con l’uso elettronico. Le loro costruzioni ritmiche cercano il coinvolgimento, sono di facile orecchio, e il frontman gonfia le vene del collo all’arrivo dei chorus. È un continuo superamento, un corsa infinita, come quelle dei TV DUST, three man band, che ricompongono il quadro di tetro grind dei Submeet con linee minime, dure, raccolte dall’elettronica pressante. Il concerto è questa volta nella zona bar, vicino all’ingresso, che immerge il gruppo in mezzo alle persone. È la struttura, in sé, il fondamento di tutto, che chi suona è parte di chi ascolta e viceversa. Un piccolo anfiteatro di corpi si sviluppa attorno ai TV DUST. Nessuno è al centro, se non c’è bisogno di individualità. È una delle prime cose che mi avevano raccontato. Nessuna ribellione senza tutti.

 

 

 

 

 

 

Il momento è quello che tutti aspettavano, dall’uscita della line up. I Preoccupations, tolte le insegne dei Viet Cong, hanno continuato a produrre e suonare senza perdere colpi, imponendosi come una delle realtà più efficaci a rappresentare gran parte del post punk di oggi. Questo li ha buttati nel difficile onere di essere già cult, ancora prima di aver espresso tutto il proprio potenziale. Il fatto che Continental Shelf come secondo pezzo, potrebbe essere fra le ragioni, ma qui non siamo in un complesso piano discografico. L’effetto è disarmante, in tutti i sensi, per il modo in cui coinvolgono, per la musica che passa dentro, per il vortice che si forma subito in mezzo. I lividi, parte determinante. Disarray è un incubo romantico in lo-fi, dell’esperienza di sentirsi perduti, della comunanza di cui parlavamo, del sentirsi tutti allo stesso tempo in un determinato posto. Matt Flegel è carisma immobile e meccanico, Scott Munro indomabile fra la chitarra e le tastiere. Il loro post punk è questo sentimento incomprensibile, di lucida sofferenza e rumoroso contrasto per Espionage, calore rauco per Memory. Non si riesce quasi a passare, a mettersi in salvo. Quella storia dei ragazzi tristi, che non si sapevano divertire, non è la nostra.

 

 

 

#DAY TWO

 

 

Tutte le fotografie sono di Francesco Pattacini

Exit mobile version