Whiplash: guida all’autoflagellazione

Ogni volta che penso alla cosiddetta pedagogia della punizione, mi viene in mente il corpo docente delle mie scuole superiori: dopo anni di autoflagellazione coatta, l’unica via d’uscita cominciava ad assumere le forme di una professione di colpa. Una professione di ignoranza, ad esser precisi. Formula classica mutuata generosamente dal sacramento della confessione cattolica: enumerazione dei peccati, pentimento, saluti finali. Provate ad aggiungere un paio di cimbali scagliati per aria e avrete un’idea dello sguardo amaro di Damien Chazelle sul mondo delle accademie musicali.

Visti i miei trascorsi personali, l’idea del reietto che seppellisce il maestro mi aveva fomentato e non poco. E il grande equivoco del film riposa proprio nell’empatia viscerale che è in grado di suscitare.

Qui di solito metto una frase simpatica sugli spoiler a seguire. Seriamente, se non avete visto il film, staccate qui.

Partiamo dal finale: la sindrome di Stoccolma di Neiman sfocia in uno scambio di sorrisi che sembra tributare l’insperato successo sul palco a quello schizoide di Fletcher (interpretato splendidamente da J.K. Simmons, fresco di premio oscar come migliore attore non protagonista). Il culto del sacrificio non è soltanto un esercizio metodico di potenziamento e così il talento diventa mera manifestazione collaterale di una forsennata perseveranza, dello studio ossessivo-compulsivo di frammenti isolati. Si fa portavoce di questa visione distorta l’insopportabile personaggio interpretato da Simmons. Terence Fletcher, direttore d’orchestra e talent scout nel più prestigioso conservatorio del paese, è un maestro dal carattere fumantino: scaglia alla cieca l’indice sulle le singole battute, vieta l’uso degli spartiti durante le esibizioni, proietta in aria ciò che ha sotto mano, apostrofa studenti e passanti ricorrendo al turpiloquio della peggior specie (i paragoni col sergente Hartman si sprecano) e così via. Il punto è che il film vuole convincerci a tutti i costi che l’esercizio in forma di ripetizione è l’unica chiave per il successo, quando la musica ci insegna che tanti grandi, anche e soprattutto nel Jazz, sono stati anarchici prima che pionieri (basti pensare a uno scapestrato sociopatico come Monk). L’episodio del piatto scagliato da Jo Jones a Charlie Parker mi fa sorridere. Siamo sicuri che The Bird non sia diventato un mostro sacro nonostante gli scivoloni e non grazie agli stessi?

Ok, ora penserete che il film faccia schifo e che questa sia l’ennesima presa di posizione contro il cinema hollywoodiano ispirato al filone biografico stile Clint Eastwood (la curiosità del piatto, ad esempio, è ripresa dal suo lungometraggio The Bird).

Invece il film rimane, stilisticamente, un vero gioiello. Le sequenze incalzanti, la curiosità dell’occhio spaesato della telecamera, il taglia e cuci ritmato e tanti altri particolari consegnano all’opera non solo i contenuti ma le forme di un film sulla musica (premiato, difatti, anche e soprattutto per il montaggio).

La domanda è: come fa un film da 3.3 milioni di dollari ad accaparrarsi tre statuette? I maligni penseranno alla solita stangata pilotata dell’industria cinematografica; a noi, invece, piace pensare all’autorevole garanzia offerta dallo splendido omonimo cortometraggio di Chazelle, pluripremiato al Sundance Festival nel 2013, che racchiude i migliori dialoghi e gran parte dei momenti estetici essenziali riportati nella versione estesa.

La qualità dei movimenti filmici, insomma, sembra stemperare quell’eccesso di trasporto che il film tende ad ingenerare. Teniamo presente che Chazelle ha tratto dalla sua personale esperienza in conservatorio gran parte degli eventi che il film raccoglie.

D’altronde anch’io, avessi potuto girare un film in cui facevo un assolo di ossidoriduzioni umiliando la mia professoressa di chimica del liceo, ci sarei andato giù pesante con la retorica. Avrei concentrato tutto il turpiloquio nell’ultima scena, però.

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