Woodstock e Gimme Shelter, quando il documentario racconta il rock

a cura di Riccardo Antoniazzi

Tutto ha avuto inizio nel 1967. Chi era cresciuto durante il baby-boom vide il proprio idealismo scontrarsi con le difficoltà della vita quotidiana. Il vivido e variopinto conflitto generazionale statunitense trovò nella musica rock la forma d’arte con cui arrivare alla consapevolezza delle idiosincrasie dello stile di vita americano. Il Monterey Pop Festival diede inizio all’epoca d’oro per quel fermento antropologico, tra la lotta per i diritti civili, il movimento hippie, la ricerca scientifica, la Summer of Love di San Francisco e l’impatto mediatico della guerra in Vietnam. In particolare, l’emergente panorama del rock e del pop, i quali erano stati i generi musicali protagonisti assoluti di Monterey, trovò consacrazione ed epitaffio spirituale del sogno degli anni Sessanta in due tra i concerti più famosi del Novecento, tenutisi rispettivamente nell’agosto e nel dicembre del 1969 a Woodstock e ad Altamont, e immortalati in altrettanti celebri documentari.

Spesso si suol dire che i documentari sul rock siano prodotti di scarsa valenza artistica o intellettuale, perennemente in bilico sul confine tra lo spot promozionale e il videoclip tirato per le lunghe con sessioni d’intervista. Tuttavia Woodstock di Michael Wadleigh e Gimme Shelter dei fratelli Maysles costituiscono due tra le più felici eccezioni. Il film di Wadleigh coglie magistralmente quanto l’eredità culturale e l’atmosfera mitologica di Woodstock vadano ben oltre l’etichetta di modello assoluto di grande evento musicale, per incarnare una svolta storica profonda per la sensibilità della gioventù del tempo, spaccata a metà dall’uso liberatorio delle droghe e dal patriottismo più conservatore.

Collaborando con alcune nuove promesse della Nuova Hollywood come Martin Scorsese, Wadleigh documenta l’allestimento del concerto nella campagna del Bethel e l’entrata in scena di un pittoresco pubblico, composto da oltre 400.000 giovani. Con un intelligente uso dello split screen, una tecnica di montaggio che affianca due dinamiche visioni contemporanee di eventi simultanei, il film propone panoramiche aeree e interviste agli abitanti del luogo e ai partecipanti, offrendo un ampio ventaglio di punti di vista sull’evento. L’analisi sociale e antimilitarista si inspessisce di digressioni sul consumo di stupefacenti e sull’amore libero consumato tra un’esibizione e l’altra delle decine di artisti coinvolti (Jimi Hendrix, Joe Cocker, gli Who, Santana, Richie Havens etc…). Il taglio neutrale del film permette a Wadleigh di tenere le giuste distanze rispetto alle testimonianze, mentre il ritratto coglie il pubblico alle prese con i disagi di una situazione pericolante e senza precedenti.

Ancora oggi impressionante per come attraverso il montaggio Wadleigh ha compresso in tre ore (quasi quattro nella versione estesa) tutti gli elementi salienti dello spettacolo senza privarli del loro valore comunicativo, Woodstock vinse l’Oscar come Miglior documentario, sublimando la filosofia hippie e la contestazione a suon di musica rock. E in quest’ottica forse non è un caso che l’immagine di apertura del visto censura R (in America corrispondente al divieto ai minori di 17 anni non accompagnati) prenda simbolicamente fuoco, quasi a rimarcare la natura libertaria del concerto.

Gimme Shelter, realizzato dai Maysles durante il tour americano dei Rolling Stones nel 1969, è ben più artefatto di Woodstock, ma emotivamente più viscerale. Collocando il disastroso concerto gratuito al circuito di Altamont (a pochi chilometri dalla stessa San Francisco della Summer of Love) come momento culminante del lungometraggio, Gimme Shelter rinuncia al realismo puro del documentario per fondere musica a intenti polemici. L’esibizione degli Stones al Madison Square Garden apre il film in maniera tutto sommato tradizionale, ma ben presto il film carbura e diviene chiaro come i registi abbiano preferito piegare la fedeltà agli eventi a favore di virtuosismi drammatici con il solo scopo di incrementare un’emotività cruda e inquietante. Le linee temporali risultano ingarbugliate, aumentando un effetto alienante che prende allo stomaco lo spettatore. A differenza da quanto riportato dalla cronaca, l’uccisione dello spettatore di colore Meredith Hunter durante il concerto a opera di un membro degli Hell’s Angels (una gang di motociclisti particolarmente molesta e manesca ai quali gli Stones avevano affidato il ruolo di servizio d’ordine) avviene durante l’esecuzione del brano Under My Thumb, in un crescendo di violenza ed effetti psichedelici da bad trip (il delitto fu attribuito erroneamente alla potenza persuasiva e apparentemente demoniaca del brano capolavoro Sympathy for the Devil, reazione per la quale gli Stones si rifiutarono di suonarla nei loro concerti per ben sei anni).

Analogamente a Woodstock, la regia dei Maysles segue in parallelo l’allestimento dell’evento e tutti i suoi momenti chiave; non mancano anche qui le riprese aeree sugli spettatori, ma il sentore di tragedia e follia imminenti, con il senno di poi, costringe a rileggere le immagini di giubilo sotto ben altra ottica. La chiusura della pellicola è significativa e intensa, con la band che fa i conti con la grave conseguenza simbolica della tragedia, ovvero la chiusura brutale di uno dei decenni più turbolenti del XX secolo, in nome dell’arte.

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