Intervista a Yakamoto Kotzuga

Foto: Alessia Naccarato

Per la sua prima volta a Torino, sabato 14 Febbraio Yakamoto Kotzuga ha suonato all’Astoria in occasione dello Sleeping Live di Ohhh C’mon, immerso in un’atmosfera onirica a luci basse che ben si adatta a quella del suo primo disco ormai prossimo all’uscita e dal titolo ancora top secret. Parla di una svolta rispetto agli EP, della determinazione di scommettere sulla musica in tutte le sue molteplici declinazioni per farne un lavoro totalizzante, del Radar Festival, ascolti preferiti e sogni di collaborazioni future.

Yakamoto Kotzuga

Aver abbandonato la facoltà di architettura per studiare musica evidenzia da parte tua la volontà di investire sulle tue capacità in questo campo. Significa che sei quindi fiducioso circa il fatto che possa diventare un impiego a tempo pieno e indeterminato?

Lo spero, innanzitutto, e diciamo che per quest’anno ci sto riuscendo, nel senso che poco dopo aver lasciato la facoltà di architettura pensavo di iscrivermi al conservatorio però in realtà doveva ancora arrivare il periodo delle iscrizioni e nel frattempo mi è arrivata la proposta di lavorare in questo centro di ricerca sulla comunicazione, Fabrica, nel dipartimento musica. Quindi per ora, per quest’anno, mi sono trasferito a Treviso per lavorare in questo centro e mi sto occupando di varie cose che possono essere musica per la pubblicità o sound design per altri progetti, etc etc, quindi anche qualcosa che possa costituire un portfolio.

Tanti musicisti/band capita spesso che vengano presi in considerazione solo dopo svariati album; ti fa sentire sotto pressione e caricato di aspettative l’essere stato scoperto e messo in rilievo nel panorama nazionale in così giovane età oppure la vivi come un’opportunità maggiore e quindi più stimolante?

Sicuramente mi ritengo fortunato nel senso che in parte ho saltato dei periodi di gavetta, per cui di certo mi sprona a fare le cose con più impegno. A volte il peso delle aspettative lo sento ma questo non ostacola o modifica comunque il mio modo di fare, vado per la mia strada.

Yakamoto Kotzuga

Sia negli artwork dei tuoi EP che nei video traspaiono stati d’animo molto intimisti come solitudine, introspezione, anche malinconia, è giusto? Hai cercato di incanalare questi sentimenti nella musica?

Sì, senz’altro, e queste stesse componenti diventano ancora più evidenti nel disco che uscirà tra un mese, più scuro, che forse è meno malinconico ma più malato, è tutto degenerato.

Invece riguardo proprio il tuo primo disco, quando hai cominciato a lavorarci e che direzione hai preso rispetto ai precedenti EP?

Il concetto di base che è cambiato è stato quello di passare dal far musica per creare un ambiente ideale, un luogo immaginario dove rifugiarsi e dove tutto era tranquillo, all’affrontare tutte queste cose che mi facevano scappare e trasportarle nella musica. Non ero mai partito dall’idea di fare un disco vero e proprio ma me l’aveva proposto e consigliato Enrico Molteni de La Tempesta. È stata una cosa abbastanza difficile, nel senso che fare gli EP è semplice secondo me, metti quei quattro pezzi che hai, non c’è bisogno di mantenere un concept, è più immediato. Ogni volta il problema è riuscire a dire “ok, son riuscito a dire e fare tutto quello che volevo”, non so se ci son riuscito. Rispetto agli EP sono sonorità completamente diverse.

Quando hai capito che l’album era completo così come ti sei reso conto che stava prendendo forma un nuovo lavoro?

Un po’ mi ero messo là da due anni e incominciavo ad avere parecchi pezzi, così ho fatto una selezione di tutti quelli che mi piacevano e poi ci ho lavorato ulteriormente per raffinarli. In realtà la ricerca non è mai finita, continua sempre. Poi una volta deciso che era completo mi son preso una pausa per i lavori personali, penso che sia importante distaccarsene. Continuo ad ascoltarlo semplicemente perché faccio delle prove, ma son sicuro che da quando uscirà le uniche volte in cui lo ascolterò sarà mentre lo suono.

Che tipo di campioni hai preferito utilizzare e come li hai selezionati?

Per la selezione dei campioni è tutto molto variabile. Possono essere mie registrazioni editate alla follia o pezzi di altri o acapella. Non ho regole, è un’attitudine molto istintiva, o forse casuale. Molte volte mentre produco mi sembra di entrare in uno stato mentale completante diverso da quello normale e a volte non ricordo neanche tutti i processi che mi hanno portato alla genesi di un determinato suono.

A livello musicale è difficile separarsi dai propri ascolti, tu in che percentuale ti senti influenzato nella musica che fai?

Ti dirò, ultimamente sono abbastanza contenuto perché ho smesso di ascoltare musica durante il processo di creazione del disco quindi direi che son stato influenzato particolarmente da qualcosa. mi rendo conto che certe cose possono ricordare alcuni artisti però non è stato voluto, non è certo una questione che ho preso in considerazione prima di iniziare. Sono abbastanza contento di quello che è venuto fuori, penso sia abbastanza personale come cosa. Poi ovviamente è difficile ma nello stesso tempo molto importante perchè senza gli ascolti non si fa nulla.

Yakamoto Kotzuga

So che hai suonato delle chitarre in un pezzo del nuovo album di Indian Wells, Pause, com’è stato lavorare per lui?

Sì, è quello insieme anche a Matilde Davoli, è stato difficile, da un lato, nel senso che il provino che mi aveva mandato stava benissimo in piedi così com’era, quindi ho dovuto lavorare più come strumentista, come chitarrista, voleva delle chitarre. Poi tra l’altro l’arrangiamento che avevo fatto io è stato ancor più scarnificato per far funzionare meglio il pezzo. Mi ha fatto molto piacere perché è stato uno dei primi artisti di Bad Panda che seguivo, quindi mi ha lusingato.

Nella regione da cui provieni esiste una importante realtà che è quella del Radar Festival, che ricordo hai della tua data di apertura a Tycho, la scorsa estate, insieme anche ad altri nomi italiani?

È stata sicuramente un’esperienza molto molto positiva, è un onore e un piacere trovarsi con realtà internazionali molto famose con cui condividere il palco e di fatto a due passi da casa. Purtroppo ci son stati svariati problemi nell’edizione di quest’anno che si sono ripercossi a livello organizzativo e che hanno portato ad attivare quindi questa campagna in crowdfunding.

C’è stato un disco ultimamente che ti ha totalmente coinvolto?

Allora, come dischi che mi hanno colpito nell’ultimo periodo sicuramente l’ultimo di Andy Stott, Faith in strangers, mi ci son ritrovato molto, ma anche Flying Lotus, Lapalux, Shlohmo. A livello di ascolti italiani sicuramente Populous, che ha fatto un grande album, o anche Go Dugong.

C’è qualche artista che stimi sia a livello artistico che umano con cui ti piacerebbe collaborare in particolare?

Ti avrei detto John Frusciante prima dell’ultimo lavoro che ha fatto uscire! Però, a parte gli scherzi, lui l’ho sempre stimato abbastanza come persona, nel senso che bene o male è sempre riuscito a fare quello che voleva lasciando da parte la questione commerciale ed economica. Ora come ora mi piacerebbe molto molto, non dico collaborare, ma anche solo veder lavorare Lapalux, come ti parlavo prima, perché mi manda fuori di testa completamente! Mi piacerebbe proprio vederlo in studio, live invece l’ho già visto per fortuna. E poi tantissimi, anche con Thundercat mi piacerebbe lavorare, qualcuno del genere.

Se dovessi descrivere la tua cifra stilistica, che parola/e useresti?

È difficile, non lo so.

Se preferisci, anche un’immagine che senti ti descriva e ti rappresenti.

Ti posso mostrare la copertina del disco, è la foto di un mio caro amico che ho conosciuto a Fabrica e secondo me rappresenta molto bene il disco. L’immagine c’era già prima dell’album e io l’ho trovata molto adatta, nel senso che ci son questi elementi un po’ onirici di cui probabilmente cercherò il simbolismo prima che esca il disco! Però appunto, il bianco e nero, il mood scuro, così come altri elementi che sembrano messi un po’ a caso, secondo me è proprio il suo.

Yakamoto Kotzuga

 

Fotografie di Alessia Naccarato

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