10 libri per cercare di capire i malati di calcio

Basta! Liberiamoci da queste catene. Purifichiamoci dalle sovrastrutture, dal pudore, dai sensi di colpa. Gridiamo al cielo quella vergogna che troppo a lungo abbiamo ricacciato in fondo alla gola: siamo malati di calcio! Il calcio è bello! D’accordo, è uno sport semplice, infantile, becero e abbruttente (peraltro più per chi lo guarda che per chi lo fa). Tira fuori il peggio di noi, azzera il nostro intelletto, ci fa simile a bruti. Eppure sì Dante, alla faccia tua, io fui fatto, almeno per 90 minuti, a viver come bruto! Sì, voglio sprecare una profumata serata primaverile stravaccato sul divano a ingollare Peroni fissando uno schermo. Sì, voglio bagnarmi fino al midollo una domenica pomeriggio di pioggia per guardare dei dilettanti che si infradiciano su un campo fangoso. Sì, voglio riempirmi il cervello di informazioni inutili: colori sociali, stemmi, statistiche, squadre della serie B polacca, albi d’oro. Sì, voglio ululare come una scimmia se la mia squadra segna un gol e infiammarmi la bile se lo subisce. Non ha senso resistere, opporsi, nascondersi dietro un’aristocratica superiorità (“Il calcio? Puah, roba da celebrolesi”). Io sono malato di calcio. Lo amo visceralmente, a prescindere da tutto e da tutti, in maniera folle e disperata. Perché? Ah, questo non lo so. Sono il paziente, mica il medico. Ma so che non sono il solo. Anzi, gran parte della reputazione negativa che la mia malattia e io ci portiamo addosso deriva proprio da questo suo essere mainstream. Quasi tutti amano il calcio, ogni giorno ne sentiamo parlare, volenti o nolenti. Il quotidiano italiano più letto è la Gazzetta dello Sport, che potrebbe a tutti gli effetti chiamarsi Gazzetta del Calcio visto che gli “altri sport” sono relegati a fondo pagine insieme ad attualità e oroscopo. Ogni santa sera c’è una partita in tv. A ogni angolo di strada, dalla metropoli al paesino, dai mari ai monti, c’è un bambino che spara pallonate contro la saracinesca di un garage. Ed è questa sovrabbondanza, questa asfissiante onnipresenza che, tante volte, ci fa vergognare. I tempi moderni, mass mediatici e globalizzati, ci hanno detto che per essere fighi bisogna essere di nicchia, originali, alternativi: vedere film d’essai, ascoltare musica underground, mangiare green, vestirsi queer. Tutto per potersi trincerare nel rassicurante “non puoi capire” che, anziché l’ennesima pecora nel bianco gregge, ci fa sentire lo speciale e irripetibile fiocco di neve. Ma amare il calcio non fa di me Donald Trump. Non mi rende un bifolco, un omofobo, un razzista o un sessista. Mi rende semplicemente l’appassionato di uno sport emozionante, atletico, tecnico e tattico, che tanto da vicino ricorda la vita: una fatica bestia per fare gol e poi palla al centro, ricominciare da capo. Di uno sport sociale, perché bisogna essere almeno sempre in due per giocarci. Di uno sport democratico, perché basta una palla, anche fatta di stracci. Di uno sport universale, perché per capirlo e condividerlo non serve nemmeno parlare la stessa lingua. Di uno sport che è anche cultura, antropologia, emozione pura e, talvolta, arte.

Sono malato di calcio. Ma come me tanti altri. Se siete tra questi, o se volete compatirci un po’ meno, cercando di comprendere almeno un’oncia della lucidità e della bellezza che c’è dietro la nostra follia, questi libri potrebbero aiutarvi.

 

Nick Hornby, Febbre a 90, Guanda

Il capostipite-icona dei grandi romanzi calcistici, la pietra miliare dopo la quale non si può più tornare indietro. Febbre a 90 è la seduta psicologica di uno dei più noti e affermati scrittori inglesi contemporanei, sdraiato sul lettino della letteratura. Hornby è malato di calcio e, soprattutto, malato di Arsenal. Le diverse partite della sua squadra del cuore, costellate più da fallimenti che da successi, seguono di pari passo la biografia dell’autore attraverso l’Inghilterra degli anni Settanta, Ottanta e inizio Novanta. Passano donne, lavori, crisi familiari, governi. Passa tutto, ma non i Gunners. “Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore e allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé.” Questo aforisma, che apre il libro, racchiude tutta la malattia per il calcio, che scavalla i 90 minuti per divenire pensiero costante, quasi ossessivo. Tutto per quel concentrato orgasmico di gioia, soddisfazione, sollievo ed estasi racchiusa in un gol. O, magari, in un campionato.

 

Simon Critchley, A cosa pensiamo quando pensiamo al calcio, Einaudi

Ogni malattia necessita della sua trattazione scientifica per essere ufficialmente annoverata come tale. Se Hornby fornisce il resoconto del paziente, a indossare il camice del medico è Simon Critchley. Filosofo e Hans Jonas, ossia professore di filosofia presso la New School for Social Research di New York, Critchley è a sua volta un malato (il suo morbo specifico si chiama Liverpool), ma non per questo – o proprio per questo – rinuncia a individuare degli assiomi validi universalmente relativi alla inimitabile bellezza del calcio. Fondamentale, nella sua trattazione, è il concetto di “estasi percettiva”, che lui individua come base della bellezza di questo sport e definisce come: “Qualcosa di simile all’esperienza dell’incanto, durante la quale ci eleviamo al di sopra del quotidiano per raggiungere un istante estatico, evanescente e collettivo, una lieve trasfigurazione dei sensi.” È questo l’istante in cui il morbo penetra nel tifoso, per non lasciarlo mai più. Questo non significa però azzerare totalmente il proprio intelletto: il cervello di Critchley continua a funzionare anche durante i 90 minuti domenicali, individuando similitudini tra calcio e socialismo, un nietzschiano prevalere del dionisiaco sull’apollineo nello spettacolo rappresentato, definendo l’essenza autentica del tifoso con Heidegger (“Quando qualcuno è interamente concentrato sul gioco, quando prova questa angoscia quieta e incantata che Heidegger chiama Angst: ecco l’esperienza di essere un tifoso al suo meglio”). Ma anche riconoscendo gli aspetti negativi di questo gioco, sintetizzati in stupidità e disgusto. La stupidità dei tifosi, che rovinano il più bel gioco al mondo con la loro ignoranza, omofobia, razzismo, e il disgusto verso la classe dirigente, che sta trasformando il calcio in una grande, lucrosa e artificiosa impresa, dimentica di ogni passione. “Guardare il calcio è guardare il mondo nei suoi lati più nauseanti e tremendi […] Se il calcio ci restituisce un’immagine dei nostri tempi è quella peggiore, la più volgare”. Lo sappiamo. I veri appassionati di calcio lo sanno. Eppure, “i tifosi sanno anche che per un momento, il momento tra i momenti, c’è altro […] il tendere verso quello che potremmo chiamare l’assoluto. In quei momenti di magica incoscienza, sospesi tra slancio e meraviglia, l’essenza del calcio risplende al punto da nasconderne la sostanza.”

 

Vladimir Dimitrijević, La vita è un pallone rotondo, Adelphi

Ah, i balcanici. Meraviglioso popolo di calciatori e – soprattutto – narratori di calcio. Per la Iugoslavia, fortissima quanto non vincente Nazionale poli-etnica, piena di talenti cristallini e incompiuti, era stata coniata un’espressione apposita: “morire nella bellezza”. Questo significava che, di coppe, non ne vincevano mai, sconfitti magari in finale, in semifinale, o comunque nella partita chiave. Ma come giocavano! Dimitrijević era appunto un esule iugoslavo. Fuggito dal suo paese nel 1954 dopo che il padre, un orologiaio anti-comunista, era stato imprigionato da Tito, si era rifugiato in Svizzera dove, dopo anni di lavoro in nero, ottenne il permesso di soggiorno grazie all’ingaggio nella squadra locale del Grangers. Diventato in seguito libraio, Dimitrijević si trasferì a Losanna, dove fondò la casa editrice Éditions L’Âge d’Homme. Libri e calcio, quindi, furono una costante della sua vita. E il suo pensiero sul calcio (ma anche un po’ a tutto tondo sulla vita) non poteva che sintetizzarsi in un magnifico libro, La Vita è un pallone rotondo. Non un romanzo né un saggio, bensì un flusso di pensieri autobiografici. O meglio, La Vita è un pallone rotondo assomiglia a una bellissima chiacchierata da bar, davanti a un bicchiere di vino, ad ascoltare le riflessioni di un uomo profondamente colto, innamorato e al contempo critico verso questo sport. È un florilegio di massime che, come un’istantanea, fotografano alla perfezione lo spirito del football: “Il calciatore vero si riconosce immediatamente, non lo si può inventare né simulare; il suo è un qualcosa di innato, un dono, un tocco inimitabile, l’arte di stoppare la palla; una cosa che non si impara”; oppure la celeberrima: “Il calcio è uno sport semplice: si gioca undici contro undici alla presenza di un arbitro. E alla fine vince la Germania” (frase che spesso viene erroneamente attribuita a Lineker). Un libro che più di ogni altro annoda il legame calcio – cultura e che, non a caso, è il libro feticcio di Federico Buffa, uno che della narrazione culturale del football ha fatto un’arte.

 

Enrico Brizzi, Il meraviglioso giuoco. Pionieri ed eroi del calcio in Italia (1887-1926), Vincere o morire. Gli assi del calcio in camicia nera (1926-1938), Nulla al mondo di più bello. L’epopea del calcio italiano fra guerra e pace (1938-1950), Laterza

Enrico Brizzi è uno scrittore che allo sport, nelle suo varie manifestazioni, deve moltissimo. Nel suo esordio mirabolante, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, era la bicicletta di Alex a essere co-protagonista. Ma l’altra grande passione sportiva di Brizzi è il pallone, una passione che si è concretizzata in questa Trilogia del calcio italiano pionieristico. Si scopre un mondo distante anni luce dallo showbiz odierno, dove i calciatori, anche della massima divisione, lo sono part-time, dove i primi, rudimentali mondiali sono occasione per scappatelle nelle più raffinate case chiuse di Parigi, dove i grandi campioni, Meazza, Schiavio e Mazzola, assomigliano molto più a persone comuni che non alle odierne, intoccabili star. È lo spaccato di un mondo puro, passionale e naif, che dai piccoli circoli dopo-lavorativi si strutturerà, nel Ventennio fascista, in quel grande carrozzone d’intrattenimento volto a incanalare e distrarre la passione delle masse.

 

Osvaldo Soriano, Pensare con i piedi, Einaudi

Un velo malinconico e polveroso di saudade sudamericana si stende sulla raccolta di racconti dell’argentino Osvaldo Soriano. Argentina, terra mitica del football. Così passionale, autentica e verace da continuare ad affascinare nonostante la pochezza del suo campionato nazionale, nonostante le altalenanti fortune della sua Nazionale. Eppure, i profeti del calcio vengono da lì: Maradona, Veron, Riquelme, Messi… Divinità che calpestano un rettangolo da gioco, esseri supremi che portano luce toccando un pallone. È forse per questa educazione mistica che il calcio di Soriano è ammantato da un che di magico, di fatato. Se i ricordi del padre, dell’infanzia nel deserto dell’Argentina meridionale e della dittatura sono reali e realistici, non così è per le avventure calcistiche: trasferte scalcagnate, portieri bandoleri, bomber malinconici e allenatori stregoni. La vetta più alta è del tutto immaginifica: i mai disputati Mondiali del ‘43. Come Eco fu l’unico a leggere il secondo libro della Poetica aristotelica, così Soriano è l’unico a sapere che quel mondiale si giocò, e con quali modalità: tra campi improvvisati, nazionali scalcagnate come quella degli Indios mapuche e un arbitro leggendario, ossia il figlio di Billy the Kid il quale, anziché sul Var, poteva contare sulla sua colt per decidere o meno l’assegnazione di un rigore.

 

Philipp Winkler, Hool, 66thand2nd

Il calcio può essere centrale, anche quando, a conti fatti, è piuttosto marginale. Lo sanno bene Heiko e i suoi amici Ulf, Jojo e Kai, i protagonisti di Hool. Sono infatti tifosi dell’Hannover 96, squadra che milita, con alterne fortune, nella Bundesliga tedesca, ma allo stadio ci vanno poco e altrettanto poco importa loro dei risultati ottenuti sul campo dall’undici calcistica della loro città. Ciò che per loro conta davvero è difendere i colori cittadini, verde e rosso, sul campo di battaglia quando ogni sabato, in una zona ben lontana e isolata rispetto allo stadio, si sfidano con hooligan rivali in una grande quanto organizzata rissa. Winkler, però, non vuole dipingere Heiko e compagnia come meri attaccabrighe. La sua analisi va più a fondo, a sviscerare le condizioni di vita delle classi più disagiate nella Germania di oggi. Pur in uno stile e con un taglio particolari, Hool si inserisce nella letteratura tedesca contemporanea che fa introspezione sulla propria società, e può essere accostato a In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del XXI secolo di Roland Schimmelpfennig. Come i personaggi del libro di Schimmelpfennig, anche qui i protagonisti occupano i gradini più bassi della società e sono alle prese con la generale perdita di senso e valori iniziata dopo la caduta del muro di Berlino. Il protagonista narrante, Heiko, emerge dalle pagine non come una persona ignorante e cattiva, ma come un ragazzo disilluso, arrabbiato, abbandonato da tutti e sostanzialmente incapace di esprimere i suoi sentimenti. Uno per uno, anche gli amici intorno a lui inizieranno ad abbandonarlo, a cercare una via d’uscita dalla desolante realtà in cui vivono. Resterà soltanto lui, intento, più che con gli hooligan avversari, a fare a pugni con se stesso e con la sua vita.

 

James Lloyd Carr, Come i Wanderers vinsero la coppa d’Inghilterra, Fazi

Una follia collettiva, ma lucida e ben organizzata. Gli Steeple Sinderby Wanderers sono una squadretta dilettantistica collocata da qualche parte nella campagna inglese, vicino al Galles. Il loro villaggetto non compare nelle guide turistiche e, se compare, figura tra i luoghi da evitare. Almeno finché un eclettico presidente, Mr. Fangfoss, e una promessa non mantenuta del grande calcio, Alex Slingsby, non decidono di applicare scientificamente le doti razionali di un loro geniale compaesano di origini ungheresi (ah, i balcanici), il Dottor Kossuth, per un unico scopo: conquistare la FA Cup. Basterà un semplice decalogo di 7 regole per sconfiggere avversari come Leeds, Aston Villa, Man United e Celtic Glasgow? Basterà, ma non è questo l’importante.  Perché, al di là dei risultati, la cavalcata dei Wanderers nella FA Cup servirà a cementificare la socialità tra gli abitanti di Steeple Sinderby, restituendo loro orgoglio, senso di appartenenza e dignità. Lloyd Carr, che si auto-definiva un eccentrico, crea un racconto pervaso da un inarrivabile umorismo british e popolato da personaggi indimenticabili. E dimostra come il calcio rappresenti, per chi non ha nulla o quasi, molto più che un semplice gioco.

 

Pierluigi Allotti, Andare per stadi, Il Mulino

Pier Paolo Pasolini, ultimo intellettuale totale e – non meno importante – gagliarda ala destra, sosteneva che il calcio fosse “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”. Solo il calcio, ormai, era capace di smovere le masse, di colpire il lato più irrazionale dell’uomo incanalando però questa mistica esuberanza in una rappresentazione ben schematizzata, con la sua durata fissa e il suo tempio laico. Il luogo sacro, in ogni rito e religione, è fondamentale. E così è anche per il calcio. Lo spiega bene Pierluigi Allotti nel suo stuzzicante Andare per stadi, una guida colta e appassionata a 16 di questi templi laici italiani. Passando per lo Stadium di Torino (quello vecchio e quello nuovo) e il Ferraris di Genova, da San Siro al Dall’Ara (in origine Littorio), fino a stadi che non ci sono più, come il Testaccio di Roma o il Filadelfia recentemente riaperto, Allotti ci ricorda i gloriosi esordi di ogni struttura e ne sottolinea le particolarità architettoniche (e ci sono veramente svariate chicche). Ma soprattutto, rimarca il legame strettissimo che esiste tra gli italiani e lo stadio. Perché l’italiano è questo, santo e bestemmiatore, cattolico e miscredente, e la domenica si divide tra le sue due fedi: quella che si esprime in chiesa, e quella, forse più vibrante, che manifesta allo stadio.

 

Tim Parks, Questa pazza fede. L’Italia raccontata attraverso il calcio, Bompiani

C’è un inglese a Verona. Ma non è Shakespeare. E i personaggi di cui racconta non sono Romeo e Giulietta. Anzi: sono dei “butei tuti mati”. Non c’è nemmeno il famoso balcone sostituito, assai meno romanticamente, dal “pullman dello Zanzibar”.  Ma di che diavolo stiamo parlando? Procediamo con ordine. Tim Parks è un giornalista, scrittore e traduttore di Manchester trapiantato a Verona. Dall’italiano all’inglese ha tradotto gente come Moravia, Calvino, Tabucchi e Calasso, mica autoruncoli. Eppure, nella stagione 2000/2001, Parks decide di entrare nelle Brigate Gialloblu (l’ala più estremista del tifo dell’Hellas Verona, scioltasi nel ’91 in seguito alla durissima repressione attuata dalla magistratura) e di seguire con loro tutte le partite di un campionato disastroso, conclusosi con la salvezza all’ultima giornata. Dall’esperienza nasce Questa pazza fede. L’Italia raccontata attraverso il calcio, un’opera a cavallo tra saggio e romanzo che, meglio di tanti trattati ufficiali, descrive il mondo calcistico italiano. Un mondo in cui, con fare tipicamente italico, violenza, razzismo e vandalismo si stemperano in goliardia, in cui personaggi che, ripresi in televisione, appaiono minacciosi emergono in realtà come macchiette simpatiche. Un mondo che è necessario guardare, per guardarsi allo specchio. Perché riti, scaramanzie e gesti degli ultrà dell’Hellas sono gli stessi di tutti gli ultrà nostrani. Un resoconto veritiero e impietoso della “malattia calcistica”, che come tale non bisogna ignorare. Perché non solo i veronesi, ma in generale gli italiani, per il calcio, sono “tuti mati”. E per rinsavire un po’, è obbligatorio riconoscere la propria malattia.

 

Darwin Pastorin, Andrea Bozzo, Storia d’Italia ai tempi del pallone. Dal Grande Torino a Cristiano Ronaldo, CasaSirio

Merita infine una menzione a parte la Storia d’Italia ai tempi del pallone. Dal Grande Torino a Cristiano Ronaldo, edita da Casa Sirio. Perché nel volume non si parla solo di calcio, ma di qualcosa di più ampio. Winston Churchill, d’altronde, affermava che “gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. E allora non c’è operazione più logica che ripercorrere la storia d’Italia non attraverso i grandi episodi politico/bellici, bensì attraverso i grandi volti del calcio dal 1946 a oggi. 23 ritratti, 23 espressioni emblematiche di un periodo della storia italiana, o meglio, di come erano e sono gli italiani in un determinato periodo. Se il grande Mazzola è l’esempio di un’Italia che risorge gagliarda dal dopoguerra, Sivori rappresenta meglio di chiunque altro la rinnovata gioia di vivere un po’ guascona degli anni ’50, Meroni la sregolatezza pop degli anni ’60, Pablito Rossi l’esuberante e truffaldina energia degli anni ‘80, Roberto Baggio e il suo rigore maledetto la fine di un’era e Cristiano Ronaldo il narcisismo social dei giorni nostri. Che Rita Pavone non si lamenti più, quindi, se la domenica il suo uomo la lascia sempre sola. Non sta andando a vedere una partita, ma a fare l’Italia.

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