Prospettive Inattuali | L’intersezionalità ai tempi di Netflix: Sex Education

L’intersezionalità ai tempi di Netflix: Sex Education

Risulterà un mistero a pochi, che il titolo di questa rubrica richiami una serie di scritti di Friedrich Nietzsche, specialmente qui dove scrivo, a Torino, dove il filosofo ha soggiornato a lungo, e si è registrato l’episodio più clamoroso della sua biografia, per il resto poco appariscente. È anche un’informazione che può essere certificata con un semplice click, perciò i pochi sarebbero realmente pochi, pochi quanti quelli che non si sono accorti che il nichilismo più radicale negli anni Dieci appena conclusi bisogna cercarlo in una serie animata molto popolare e prodotta dalla piattaforma di web-streaming Netflix, che si chiama Bojack Horseman. Il protagonista della serie non a caso è un cavallo, come quello che secondo le cronache cittadine ha ispirato la follia di Nietzsche, un cavallo antropomorfo, come la maggior parte dei personaggi che vivono nella immaginaria Los Angeles in cui la serie è ambientata. Un uomo-cavallo che è stato un famoso attore televisivo e dopo molti anni di limbo all’improvviso si riscopre un famoso attore cinematografico, ma poi… spoiler alert! Scherzetto.

Il personaggio di Bojack incarna una profonda sfasatura, pari a quella descritta nelle considerazioni inattuali di Nietzsche, opposta al concetto stesso della scrittura su blog e webzine che nasce per essere condivisa sui social rapidamente e rapidamente dimenticata. Questa sfasatura rispetto all’hic et nunc della discussione è una caratteristica che riconosciamo nei molti condannati al silenzio dall’incapacità di saltare nel chiacchiericcio delle voci che si sovrappongono in una conversazione in un bar affollato, soprattutto se tra questi molti ci siamo noi. Allora aspettiamo quel momento di silenzio che cala all’improvviso, quando le opinioni voraci si sono esaurite, e si può fare ordine partendo da ciò che non è stato ancora detto e ascoltato. Questo spazio di silenzio diventa sempre più raro, tra una conversazione e l’altra in un locale, su Twitter, o sulla timeline di Facebook. Allora bisogna essere capaci di dire qualcosa che riesca a cogliere l’attenzione abbastanza da fare durare più a lungo possibile quei pochi secondi di silenzio, che è lo spirito con cui nasce questa rubrica che raccoglie pareri fuori sincrono.

 

Dunque spero non spaventi né contrari nessuno che questo pezzo di commento alla serie Sex Education, scritta da Laurie Nunn e diretta da Kate Herron e Ben Taylor, esca decisamente in ritardo, rispetto alla messa in onda della sua seconda stagione su Netflix, avvenuta da alcune settimane. Secondo i ritmi di fruizione dei contenuti online, i più incalliti avranno già “bidgewatched” almeno una decina di serie, nel frattempo. Ma è Netflix stessa che costruisce il suo paradosso, lasciando la maggior parte dei suoi contenuti sulla piattaforma online a tempo indeterminato, a disposizione dei suoi fruitori dopo la messa in onda in un’unica soluzione delle serie che produce o acquista, e dimostrando che la loro attualità e la loro inattualità sono compresenti e in perfetto equilibrio. In questo, Netflix segue lo zeitgeist del nostro tempo ipermoderno che ci impone di essere sempre compresenti in ogni momento e in qualsiasi luogo: fisicamente in un dato posto, digitalmente immortalati nell’attimo in cui registriamo la nostra presenza su Instagram, ma anche nella sua ripetizione che rimane sempre a disposizione per essere spulciata.

Quando Walter Benjamin affermava che ogni documento di civiltà è al contempo un documento di barbarie, pochi hanno pensato che già allora il filosofo tedesco intendeva dire che l’epoca in cui abbiamo raggiunto la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte ne abbia sancito la compresenza in ogni momento di entrambi gli aspetti. E poche serie come Sex Education stanno lì a testimoniare questa duplicità, toccando un momento altissimo di civiltà televisiva, col suo messaggio sessuale progressista e inclusivo, punto di arrivo di una politica specifica promossa da anni da Netflix, come è evidente dalla presenza di punta del suo stand a tutti i gay pride. Ma contemporaneamente, ci appare documento di barbarie per la ripetitività dei personaggi, del plot, della scrittura, che lega il messaggio a una serie di cliché che per quanto favoriscano l’identificazione e la visione compulsiva, agganciando il pubblico mainstream, finisce per allontanare chi si era avvicinato alle serie televisive per la qualità di prodotti ormai relegati a una golden age che probabilmente non si ripeterà – e qui ci tocca ripetere sempre gli stessi nomi: The Sopranos, Madmen, The Wire, Breaking Bad e pochi altri.

Ma è il rovescio della medaglia il vero capolavoro di Netflix, come l’upside-down di Stranger Things: ossia aver dimostrato alla televisione generalista di poter fare molto meglio e riuscire a svecchiare davvero il giovane pubblico dei paesi in cui giunge, sbaragliando qualsiasi concorrenza televisiva – vi sfido a cercare un teenager che abbia trascorso le serate a guardare Sanremo piuttosto che le sue serie preferite sul telefono – e riuscendo a offrire al suo pubblico contenuti che diffondano effettivamente nuovi valori e nuovi messaggi, puntando a offrire una visione a portata di mano di una società multiculturale, multirazziale e aperta a tutte le possibili identità sessuali. Insomma, se c’è rischio che perfino l’Italia esca dalla bolla patriarcale e vetero-cattolica in cui è imprigionata da anni, sarà merito di un gruppetto di ragazzotti goffi che si chiamano Otis, Eric e Maeve, piuttosto che del travestitismo, seppure rispettabilissimo, di Achille Lauro. E di serie brutte come Sex Education.

Ciò nonostante, il nuovo decennio è – forse – cominciato da poche settimane e Sex Education è indubbiamente una delle due cose più interessanti in cui mi sono imbattuto fino a questo momento, e non è detto che per destare interesse bisogni scrivere capolavori, ci ricorderebbe la buonanima di Umberto Eco. L’unica altra è la nuova, e a quanto pare, ahinoi, conclusiva serie del podcast di Jennifer Guerra su The Vision, Anticorpi. A sorpresa, i due programmi hanno in comune lo stesso obiettivo, per quanto siano diversi da tutti i possibili punti di vista – un podcast femminista e una web-serie per adolescenti. Ossia, costruire un discorso che sia alla portata del pubblico ampio su ciò che viene chiamato da un po’ di anni intersezionalità e trasmettere la necessità, se non l’emergenza, in questo periodo di nazionalismi e chiusure che sembrano crescere esponenzialmente piuttosto che ritrarsi, di costruire una società più inclusiva e rappresentativa di tutte le categorie dell’umano, e se possibile, anche quelle che non rientrano nei tratti che associamo alla nostra specie.

Il termine è stato introdotto per la prima volta dalla giurista e attivista afroamericana Kimberlé Crenshaw, nel lontano 1989, per indicare il contesto in cui si convergono le discriminazioni su cui si è costruito per esclusione il modello normativo della nostra società: quella razziale, quella di genere, quella che riguarda la nostra sessualità, quella che riguarda le persone che presentano disabilità, discriminazioni che si incontrano tutte nell’opposizione al corpo che ci è imposto come stardard, e che invece, per dirne una, in epoca greca era piuttosto legato alla sfera del mito. A queste discriminazioni si aggiunge, e spesso le contiene anche tutte, la provenienza sociale. In altre parole, cosa fa Sex Education, traduce in immagini facili da essere assimilate da un pubblico giovane il meglio dei bei discorsi che ci siamo raccontati negli ultimi decenni di teorie di genere nei dipartimenti universitari, nelle riviste letterarie, nei cinema d’essai, per provare a descriverli con immediatezza ma senza facili banalizzazioni, restituendone la complessità al pubblico più vasto senza farlo fuggire via, attraverso i due più potenti mezzi di diffusione delle idee che abbiamo a disposizione oggi, che entrambi adoperano gli schermi che abbiamo sempre con noi nella nostra vita quotidiana: quello dello smartphone e quello del computer.

Nel conflitto edipico dei nativi digitali, la blogosfera e le piattaforme di streaming digitale appaiono non solo i contesti più frequentati dai giovani, ma una forma di contestazione generazionale contro il mondo massmediatico rappresentato dai loro genitori, che continuano a frequentarli con diffidenza e parzialmente. Sex Education si candida a essere la serie che meglio di tutte da voce alla generazione che ha cercato in Instagram e Snapchat la propria voce, ed è stata capace di descriverne la colorata meraviglia, in piena opposizione a chi continua a descrivere i digital natives come deboli, abulici e incapaci solo perché hanno avviato una rivoluzione che mette in discussione tutto quello che a noi, che siamo stati giovani prima di loro, hanno insegnato, e che minacciano di destabilizzare le certezze in cui abbiamo creduto, e su cui loro, fin dagli esordi, non hanno potuto contare. Una generazione che comunica attraverso messaggi vocali ed emoji e, direi giustamente, non guarda la tv generalista e snobba giornali e riviste, si ritrova perfettamente nel dilemma morale che chiude la seconda stagione, in cui – spoiler alert, stavolta davvero! – il protagonista Otis lascia un messaggio vocale a Maeve in cui le confessa il suo amore, ma lei ha dimenticato il telefono a casa di Isaac, che innamorato a sua volta di lei, lo cancella. Qualcuno può immaginare una chiusura più adatta al contesto in cui si muovono i digital native?

La possibilità di portare avanti discorsi di una certa complessità attraverso riferimenti alle serie TV e alle web-serie ha prodotto negli ultimi anni una bibliografia che è già più vasta dei discorsi effettivi su serie TV e web-serie, e forse è il caso di smetterla di indugiare in questi preamboli. Sex Education appartiene alla categoria dei teen drama, i drammoni per adolescenti, seppure il drammone sia bilanciato da momenti piuttosto solari e spassosi, e pur mostrando in 16 episodi un’unica scena di nudo, in apertura del pilota, ha creato un putiferio per il tono esplicito con cui si affronta la sessualità degli adolescenti. Si parla insomma, come spesso accade nei TV show americani, di sesso, piuttosto che far vedere il sesso. Se non fosse che questa è una serie inglese, un elemento che appare evidente solo a chi guarda la serie in lingua originale e distingue l’accento British purissimo dei personaggi, perché tutto il resto scimmiotta in modo più o meno riuscito – anche in relazione a questo elemento ci sono voci discordi – l’ambiente scolastico americano.

Laddove altri teen drama precedenti e pure molto popolari, su tutti Skins, avevano puntato sull’autenticità dell’ambiente e dei personaggi, Sex Education sembra più vicino a un prodotto peculiare quale The End of the Fu**ing World, in cui i due protagonisti, leggermente più maturi, a tratti sembrano pure loro usciti da un graphic novel di quelli scritti bene. Se nel caso di The End of the Fu**ing World si tratta in effetti dell’adattamento di un graphic novel americano di Charles Forsman, e i riferimenti americani sono più che altro visivi – l’avventura on the road, la wilderness ai bordo strada, le conversazioni nei diners – in Sex Education invece la serie appare un calco preciso, una performance di una serie americana, e in primo luogo, assistiamo all’appropriazione del multiculturalismo buonista e un po’ facile che le serie americane propongono sullo schermo, mostrando gruppi di individui disomogenei che riescono a convivere senza curarsi delle differenze di genere, sessualità, razza, classe sociale, affinché tutti siano ammessi paritariamente nella società in scena. Un modello che è stato rielaborato e riattualizzato variamente a partire dal grande predecessore Beverly Hills 90210.

Sex Education propone dunque esplicitamente su uno schermo che diventa sempre più piccolo, fino a stare su una mano, il discorso intersezionale, e lo propone come spontanea evoluzione del discorso sessuale in un contesto in cui venga descritto: come parte di un percorso di educazione sessuale. Entrambi i protagonisti della serie, una madre e un figlio caratterizzati da un tipico caso di legame familiare disfunzionale, non fanno altro che parlare ai personaggi che incontrano e trasmettergli fiducia nel fatto che la sessualità sia una categoria fluida e non rigida né prescrittiva, e che per ognuno dei loro turbamenti c’è posto nel grande discorso sessuale, inclusi il loro caso individuale di donna incapace di legarsi affettivamente a un compagno duraturo e adolescente incapace di dare sfogo liberamente alla propria sessualità. Ma è qui che finiscono le buone intenzioni e cominciano le perplessità che riscontro nella serie.

Infatti, procedendo negli episodi la mia sensazione è che gli autori cerchino piuttosto di esplorare i limiti di cosa si possa mostrare in uno show televisivo per non incappare nell’etichetta di erotismo o pornografia, con risultati in alcuni momenti anche grandiosi: su tutti, la messa in scena queer del Romeo and Juliet che chiude la seconda stagione. Questo avvolgimento nel parlare e non mostrare finisce progressivamente per allestire un discorso sul sesso che, come tutti i discorsi, si rivela un tentativo di addomesticare e contenere, familiarizzare, rendere maneggiabile, e paradossalmente, normalizzare – ossia tradurre in una nuova norma. Il sesso, da tabù, si conferma totem che diventa parte della nostra routine quotidiana insieme alle nostre abitudini alimentari e quelle che riguardano i nostri gusti: gli hobbies, le attività, il colore dei vestiti, ciò che troviamo bello e ciò che troviamo attraente. Le coppie che si formano tra i personaggi principali mescolano etnie, culture, classi sociali, e orientamenti sessuali, con personaggi che si spostano dall’orizzonte etero a quello gay e aprendosi anche alla possibilità di esplorare la disabilità motoria, attraverso il personaggio di Isaac, interpretato da George Robinson, un attore realmente affetto da disabilità motoria.

Eppure, non sarà sfuggito a nessuno che il protagonista Otis Milburn – e l’attore Asa Butterfield che lo interpreta – è bianco, belloccio, etero e di buona famiglia, lasciando crollare in un solo colpo, per amore di rispecchiamento nel pubblico medio, tutte le migliori intenzioni annunciate dalla serie. Altrettanto bianca e bellissima è Emma Mackey, che interpreta la splendida protagonista Maeve Wiley, con cui si crea il solito gioco di coppia che non riesce ad accoppiarsi, se non in vista dell’ultima stagione dello show, per quanto legata a un background familiare dissestato – il ritorno del rimosso televisivo, ossia il fantasma della madre sciagurata e alcolista – ma anche a un carattere indipendente e una passione per la letteratura femminista. Se poi cercassimo di immaginare cosa ne direbbe Slavoj Žižek, probabilmente lui ci inviterebbe a notare anche che la descrizione di questo Galles americano è così fasulla e irrealistica, che il multiculturalismo diventa l’ennesima favola bella di cui si nutre la cultura americana, in modo da mantenerlo al riparo dalla realtà. Quello che mi fa rabbia è che per sua costituzione, malgrado le intenzioni siano davvero buone, Sex Education ci mostri un mondo così lontano dal nostro, che nel momento in cui spegniamo Neflix ci risvegliamo subito nel paese in cui il compagno di banco cambia posto se gli confessiamo la nostra omosessualità e i nostri genitori si sconvolgono se portiamo a cena il nostro fidanzato marocchino.

Ci sarebbe un’altra spiegazione, fornita da un amico mio coetaneo, che mi ha spesso sbeffeggiato sorprendendomi a guardare 13 Reasons Why. Dalla sua posizione non esattamente aperta al dialogo intergenerazionale, mi ripeteva che se proprio avesse voluto confrontarsi con l’adolescenza, avrebbe preferito farlo attraverso testi che parlavano della sua propria adolescenza. Forse bisogna anche considerare che noi trentenni e quarantenni siamo fuori dal discorso di Sex Education, che è intellegibile a chi non è parte del meraviglioso mondo dei digital natives.  Ma quei venti minuti di Romeo and Juliet che sono la cosa più queer che si sia vista in un teen drama, voglio dire, vogliamo davvero perderceli? Non sono forse di una grandiosità universale? Niente del genere apparirebbe mai sullo schermo della Rai, che perfino sul suo sito di streaming oscura un castissimo nudo di Lila in L’amica geniale. Già di suo, mi sembra che questo sia un motivo valido a convincerci che Sex Education vada visto, piuttosto che no. Soprattutto dagli adolescenti, quale che sia la generazione a cui appartengono. Anche se non è un capolavoro. Anzi, proprio perché non lo è.

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