Ariel Pink e il revisionismo musicale

foto copertina: Alise Blandini, TOdays Festival 2018

Lo scorso 7 gennaio a Washington D.C. una manifestazione pro Trump si è rivelata essere ben presto una sorta di assalto al Campidoglio per impedire che venisse confermata ancora una volta la vittoria delle elezioni di Joe Biden con tanto di manifestanti che scalavano mura come durante una scena del Signore degli Anelli, rari colpi sparati dalle forze dell’ordine, irruzioni, gente (s)vestita con copricapi fantasiosi ecc.

Che si sia trattato di un atto dimostrativo, di un tentativo di golpe, che ci fosse, come lecito pensare, un forte incitamento da parte di Trump affinché tutto questo succedesse o meno, quello che è successo questo gennaio è stato uno degli eventi più importanti e clamorosi degli ultimi anni.

Non dirò molto su un evento spregevole, architettato da un politico che continua a essere celebrato nonostante mini ogni pilastro democratico e civile. Quello di cui scriverò qualcosa è una dichiarazione da parte di Ariel Pink, paladino del pop ipnagogico:

“Ero a DC per mostrare il mio supporto pacificamente al presidente. Ho partecipato alla manifestazione sul prato della Casa Bianca e sono tornato in albergo e ho fatto un pisolino. Caso chiuso”

Ecco, il caso non è chiuso per nulla. Il supporto da parte di chiunque a questa manifestazione contro la Democrazia non potrà mai essere visto come un caso chiuso ma rimarrà a tutti gli effetti una ferita aperta per chiunque ne abbia fatto parte. Tanto meno può passare in sordina questa scelta se fatta da un personaggio pubblico, da un’artista musicale. A riprova di questo, la Mexican Summers, l’etichetta discografica di Pink, ha deciso di mollare il proprio artista di punta. In questo caso parliamo di una punta piuttosto campale per la casa discografica.

 

Ariel Pink, autore di recenti tweet in cui invitava a votare per Trump, non è un artista qualunque, a ogni modo, è un musicista acclamato tra i più innovativi degli anni ’00. Simon Reynolds e David Keenan, non proprio gli ultimi tra i critici e trend setter musicali, hanno annoverato i suoi album (soprattutto Ariel Pink’s Haunted Graffiti) tra i migliori del decennio. Come ha sottolineato più volte lo stesso Reynolds, il pop ipnagogico è stata la retro-novità più elettrizzante del nuovo millennio.

Il cosiddetto pop ipnagogico punta a un suono capace di far apparire davanti a noi un immaginario proveniente direttamente dal passato. Un passato fatto di atmosfere ovattate, nebulose, contaminato dai suoni tipici degli anni ’80 (con grande partecipazione dei sintetizzatori). La nostalgia la fa da padrona, ma si tratta di una nostalgia filtrata di tempi andati, relativamente recenti, ma probabilmente mai vissuti se non sul web, sulle compilation di YouTube (a volte parodistiche), sui blog e sui servizi di sharing.

Il passato viene rivisto alla luce di un’atmosfera incontaminata, in cui i suoni hanno la meglio su ideologie, problematiche e vizi. Revisionismo in tutto e per tutto di un’epoca storica che pare senza macchia.

Qui inizia la parte provocatoria e più critica da analizzare e la introduco con una domanda: cosa succede se il mondo degli anni passati viene presentato come senza macchia perché le macchie non sono percepite come tali? Cosa succede se quel mondo che viene tanto decantato con nostalgia non è solo quello dei suoni e delle atmosfere ma anche quello della società e delle contraddizioni? Chiesto ancora diversamente: cosa succede se quello verso cui si prova nostalgia è il prima, il si stava meglio quando si stava peggio, il conservatorismo più spinto, i tempi in cui il proprio Paese, gli Stati Uniti, erano grandi in virtù della loro egemonia basata sul razzismo più becero, sul classismo e sul dominio sugli altri (ai giorni nostri solo in parte mitigati). E se tutti i passi avanti fatti negli ultimi 30 anni in termini di diritti e società fossero visti come un qualcosa da sovrastare con un solo lungo assolo riverberato?

Questo dubbio mi ha sempre attanagliato all’ascolto di Ariel Pink, Neon Indian e tutti i pilastri del genere musicale. Una musica rivolta verso il futuro, mi fa sperare in un miglioramento (che, ben inteso, potrebbe rivelarsi un incubo distopico), una musica che ripulisce il passato mi spaventa, per quanto presentata in maniera nostalgica e teneramente meditativa, come un profumo di zucchero filato.

Non si tratta di partire dalla musica del passato per trasformarla in qualcosa di nuovo, non ci sono campionamenti in stile Massive Attack, quello che fanno Pink e soci è creare una musica che rimandi a un tempo passato. Il primo genere prende il passato e lo porta nel futuro, il secondo prende il passato e lo riporta nel presente.

Non voglio esprimere un giudizio su uno stile musicale che, specialmente nel caso dei Neon Indian apprezzo, ma solo ragionare da una prospettiva diversa sul binomio personaggio-persona che tante volte occupa le discussioni su rapper e trapper. Quante volte ci siamo trovati a difendere un cantante perché riteniamo che ciò che canta non è ciò che pensa? Non è davvero così, è solo un personaggio, una maschera. Questo argomento incredibilmente delicato, forse, dovrebbe uscire dal solco dei generi musicali e abbracciare la musica nel suo complesso.

Non sempre la musica è politica, nel caso del pop in questione lo è men che mai. Sonorità vaporVawe e vintage impazzano sul web degli ultimi anni e non lo fanno (penso e spero) con alcun fine ideologico. Il pop non è l’hip hop, i confini politici non sono così marcatamente definiti ed è giusto e bello (e rilassante) che una canzone venga presa per quello che è: una canzone. Ma se la canzone riflette un’ideologia ben precisa, come lascia presagire Ariel Pink con le sue dichiarazioni, il discorso si complica e un velo nero inizia a cadere sulla giostra con le luci fulminate che ci stava facendo balenare davanti agli occhi.

Exit mobile version