Poesia, musica e voce: le tre carte di Bob Dylan

Lo scorso 13 Ottobre l’Accademia svedese ha assegnato il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan. Per l’occasione qui trovate un focus in tre parti che prova a raccontare tre facce del cantautore americano a cura di tre autori de L’indiependente. Buona lettura.

La voce di Bob Dylan 

di Fabio Mastroserio

Immaginate di trovarvi nella vostra stanza, di notte. Guardate ciò che vi circonda, il colore delle lenzuola del vostro letto, le copertine dei dischi in un angolo, le coste dei libri, rosse, gialle, azzurre, i quadri, le fotografie, i poster. Spegnete ogni luce e restate al buio. Di che colore sono i vostri libri, le fotografie, le lenzuola? Accendete la luce e prendete ora un libro di poesie, leggetene una, chiudete il libro. Dove sono le parole della poesia? Dov’è quella poesia senza una voce che la recita?
È passata una settimana dall’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Un periodo breve in cui un fiume d’inchiostro si è riversato sul grande cantautore americano come non succedeva da tempo immemore. Per chi conosce bene l’opera di Dylan, la sensazione più che di fastidio è stata quasi di spaesamento perché tranne rare eccezioni è sembrato che nessuno andasse oltre il compitino assegnatogli a commento di un premio che sicuramente rappresenta un’anomalia nella storia del Nobel. Le tante, troppe, voci che sono intervenute dall’una come dall’altra parte sono apparse quasi divise da un solco non rimarginabile. Il mondo della musica (anche per tornaconto personale) pronto a celebrare l’inserimento del cantautorato nella grande letteratura (tutto? Siamo sicuri?) e quello di una certa letteratura che nel parlare di Dylan sembra ignorarne molti aspetti, troppi a dire la verità.

Dylan è un mondo a sé. Con più di trenta dischi di studio, quattro di cover, una decina di live, dodici edizioni delle sue Bootleg Series, due libri alle spalle, poche interviste, le poesie sparse d’inizio carriera e un box live di trentasei dischi che arriverà il mese prossimo, quello dylaniano è un corpus di materiale scritto, musicato e cantato di notevole spessore anche in termini di quantità prima che, va da sé, di qualità. Perché se è vero che molti stanno provando a salire sul carro del vincitore (e se è vero che la stessa motivazione dell’Accademia di Svezia è ambigua), nessuno ha in realtà paragonato la musica leggera alla letteratura e questo perché Dylan è una cosa e la musica leggera in molti casi, un’altra.

Nel mondo odierno, frenetico e, in molti casi, superficiale, la poesia occupa un posto piccolissimo e marginale. Il progressivo abbandono di regole metriche, una certa deriva che ne ha concesso la “qualifica” quasi a chiunque, meccanismi dell’editoria piuttosto evidenti hanno, nel tempo, spento pian piano ma in maniera costante l’entusiasmo e l’attenzione se non per casi saltuari e discutibili (come quello di Wisława Szymborska e del suo successo italiano grazie alla mediazione televisiva di Saviano). Ma c’è stato un tempo, lontano (ma più vicino di quel che possa sembrare) in cui davvero la figura del poeta era centrale e non solo all’interno delle pur sempre ristrette comunità letterarie. Bob Dylan ne ha vissuto in prima persona gli ultimi decenni di splendore, quelli tra gli anni ‘50 e ‘70 e quel mondo non solo l’ha frequentato ma ha contribuito ad alimentarlo prima grazie ai suoi interessi certo (Kerouac) e anche alle sue amicizie (Ginsberg) come alla ricchezza del Greenwich Village e dell’ambiente folk, in cui muoveva i primi passi di uomo prima ancora che di musicista e poi, in seguito, va detto, grazie a una capacità assolutamente personale, dentro e fuori i confini della musica “leggera”, di lavorare con le parole. Dylan canta su un palco. E sullo stesso palco, testi di rara bellezza, complessità, visionarietà e, perché no, poesia, sono la sua voce.

Torniamo per un attimo nella vostra stanza buia: i vostri vestiti e i vostri libri al buio sono neri. No, non sono rossi e non li vedete, sono neri perché il colore esiste solo nella luce che lo illumina. Allo stesso modo la poesia esiste solo in una voce che sappia leggerla. Con questo non voglio dire che Dylan è un poeta. E non voglio dirlo perché ognuno ha diritto alla sua idea di poesia e di letteratura, chi lo ascolta e chi legge, l’Accademia di Svezia e chi ne critica le scelte, soprattutto però non lo dirò perché Dylan non ne ha bisogno, la sua grandezza autoriale prescinde dal premio e dalle possibili definizioni e allora più facilmente do voce a Dylan stesso che negli anni sessanta dichiarò:

You don’t necessarily have to write to be a poet. Some people work in gas stations and they’re poets. I don’t call myself a poet, because I don’t like the word. I’m a trapeze artist.

A chi non riconosce la grandezza di Dylan, basterebbe ricordare l’unica intervista in cui suo figlio Jakob parlò del padre raccontando di averne capito l’importanza dall’atteggiamento reverenziale che avevano con lui musicisti e autori del calibro di Bruce Springsteen e Tom Waits. E va ricordato anche che il rispetto, quello del proprio ambiente, Dylan non se l’è conquistato certo solo negli anni della contestazione e spiace dover constatare ancora una volta come quasi tutti i commenti si siano appiattiti sul Dylan di Blowin’ in the Wind e della grande marcia su Washington con Joan Baez. Se Bowie ucciderà Ziggy inscenando la sua morte sul palcoscenico, il Dylan folk, il nuovo Zimmerman mercuriale della trilogia elettrica lo aveva ucciso a Newport nel 1965, e un anno dopo ne celebrava la scomparsa con quel “Play it fuckin’ loud”, gridato a Manchester, schiaffo alle critiche del pubblico e, insieme, una delle più sincere dichiarazioni d’indipendenza che un artista abbia mai realizzato.

Il folk, i diritti civili e il pacifismo, la svolta elettrica e l’immaginario del rock e della rockstar trasformato e plasmato a proprio specchio, il gran rifiuto della popolarità e il ripiegamento nella tradizione americana, la grande stagione degli anni settanta tra Blood on the Tracks e Desire e, soprattutto, l’impatto live della Rolling Thunder Revue, l’incredibile svolta da cristiano rinato con il gospel, la riscoperta delle radici ebraiche, qualche colpo a vuoto fino alla resurrezione con Oh Mercy, e poi ancora Time Out Of Mind, un tour ormai trentennale e la passione per i classici di Sinatra. Questa la sintesi superficiale di un percorso artistico del resto ancora ben vivo che viene condensato pigramente con la “risposta nel vento”. Un percorso scandito, si badi bene, dalle innumerevoli svolte musicali perché Dylan è prima di ogni altra cosa un musicista ed è questo un aspetto che non può essere scisso da quello dell’autore delle liriche.

Per l’uscita di The Cutting Edge, raccolta di ben diciotto dischi di tutte le takes della trilogia elettrica, la Columbia ha creato un sito dove si può giocare provando a cantare Like a Rolling Stones come lui. Provateci, divertitevi e vi accorgerete di una cosa: che Dylan è non solo inimitabile ma soprattutto che, cantando, riesce in una sorta di magia. In tanti hanno fatto cover di Dylan, Joan Baez su tutti forse la più capace a cogliere un’ampia gamma di sfumature, ma nessuno fa quello che fa Dylan, con la sua voce che, parafrasando il titolo di un disco a lui dedicato diventerà alla fine il suono della carta. Dylan riesce a far sì che ogni parola sembri essere pronunciata per la prima volta lì, in quel momento come se non esistesse da secoli. Un intero disco di The Cutting Edge è dedicato proprio a Like a Rolling Stone che parte come un valzer in tre tempi per poi approdare al pezzo che tutti conosciamo. Ci si accorge che all’inizio le parole non funzionano, non riescono a trovare la forma di cui quel testo ha bisogno, i suoi giusti accenti, le sue pause, i suoi tempi. Non è solo questione di musica, che è un po’ l’abito finale di un vestito già imbastito. Il punto fondamentale è che imbastire quel vestito, metterci i punti, disegnare una linea è esattamente quello che Dylan fa con la voce. Per questo le sue versioni non sono mai davvero definitive (quella che alcuni critici imputano come sciattezza nelle registrazioni in realtà è per Dylan disinteresse verso una forma che possa dirsi finita). Ciò che Dylan fa dal momento dell’incisione in poi è masticare e rimasticare le proprie parole fino a farle diventare come una specie di bolo: soltanto che alla fine ciò che rimane non è qualcosa di più leggero, di più digeribile. È il risultato stratificato, invece, di una ricerca costante nell’adattare quel pezzo a chi lo sta cantando, in definitiva a dargli un senso che non sia scollato dal presente che è il solo tempo in cui Dylan vive e ha vissuto (non si riascolta mai per non essere influenzato da ciò che ha fatto). Si capisce, allora, che quella di Dylan è un’operazione di sconvolgente profondità. Bob Dylan si pone come un archeologo epigrafico dei suoi stessi testi, li scava e poi, una volta ritrovati, come fossero scritti in una lingua a lui sconosciuta (perché appartenente a un sé che è ormai passato), gli restituisce modernità, forza, senso e valore. Impedendo, così, al pubblico di cantare insieme a lui, preserva il testo dai cori da stadio, quel fenomeno da slogan intrinsecamente fascista e superficiale, su cui poggia, di fatto, la “leggerezza” che si attribuisce alla musica non “classica”, non “colta” (termine orribile e odioso ma definire classico Boulez o Schönberg fa accapponare la pelle).


Non so se è poesia. Ma so che quando Dylan sale su un palco quello che ascoltiamo è un autore che sta cantando (come a dire leggendo) i propri testi e quell’atto, sempre unico perché irripetibile, è il gesto che ha la stessa potenza (di sicuro l’ha avuta) di un Majakovskij davanti alle folle sovietiche. So che quando mettiamo su una sua canzone d’amore è ancora Majakovskij che sussurra il suo amore a Lili Brik nella sua fredda stanza di una kommunalka a Mosca. È il suono della verità, di una parola in cerca di una bocca (parafrasando un’epocale intervista di Lou Reed a Hubert Selby Jr.).

Nessun autore di musica “leggera” può competere con Bob Dylan in quanto a scrittura, nessuno (si metta il cuore in pace chi vuole vedere in questo premio la rivalutazione dell’intero settore) è stato così capace di esprimere la potenza evocativa dei primi lavori folk, i testi che sorreggono le impalcature acide ed elettriche di Blonde on Blonde e che davvero nessun poeta beat è riuscito a eguagliare (“the ghost of ‘lectricity howls in the bones of her face”), la trasfigurazione delle sofferenze d’amore di Blood on the Tracks, il credo fanatico del periodo cristiano, il crepuscolo di Not Dark Yet. La ricchezza di richiami biblici e letterari, l’invenzione poetica, la visionarietà, la capacità di incidere, di infiammare e di colpire al cuore, hanno raggiunto livelli così alti che chiunque davvero conosca la parabola umana e musicale di Dylan non possa non immaginare, anche senza averlo visto, l’atteggiamento di Waits e di Springsteen al suo cospetto.

Dylan è tra i pochissimi, o forse il solo, tra i grandissimi del passato che non vive come se dovesse raccontare un’antologia di se stesso, Dylan racconta a settantacinque anni quello che lui è oggi e se, recupera come sempre fa, qualche brano del passato è perché sa che può ancora dirci qualcosa. E questo qualcosa ha deciso di dirlo e raccontarlo non scrivendolo e basta ma cantandolo, sera dopo sera da ormai più di cinquant’anni.
Quando spegnerete la luce, la sola cosa che avrà colore sarà una voce. La sua.


Pensare a Dylan come Letteratura

di Emilio Gianotti

Da quando è stato annunciato che l’accademia svedese avrebbe dato il premio Nobel a Bob Dylan mi sono stupito di veder nascere una polemica. Colpa mia. Quand’è che non nasce una polemica su Internet? Tuttavia il discorso può essere stimolante e pertanto, per non farne parte nel modo più banale, schierandosi coi pro o coi contro, penso che si possano mettere sul tavolo alcune osservazioni sul rapporto fra musica e letteratura ad uso di tutti. Partiamo da lontano: se si guardano alcuni ultimi studi scientifici sul senso estetico umano si può osservare come lo schematismo e la presenza di ripetizione riconoscibile o di struttura evidente in un’opera d’arte sono parte integrate del suo appeal.

Alcuni dei termini che utilizziamo nella lingua italiana per indicare questa regolarità anche al di fuori dell’ ambito musicale sono le parole “Ritmo” e “Armonia”. La ripetizione è ovviamente una componente del ritmo. Essa è al contempo strumento coesivo, retorico e mnemonico. Gli antichi già avevano ben chiaro il rapporto tra la memoria e le arti. Mnemosine insieme con Zeus è infatti, nella mitologia greca, la madre delle Muse olimpie. Molte delle raffigurazioni di queste muse testimoniano, proprio sotto la luce della maternità di Mnemosine, la relazione fra alcuni generi ora considerati prettamente letterari e la musica. Una di queste raffigurazioni è ad esempio Euterpe, detta colei che rallegra, musa della Poesia lirica, rappresentata con un flauto o con le tibie.

Bob Dylan con Allen Ginsberg

Non si può entrare nel dettaglio ovviamente, ma la chiave di questa relazione è probabilmente l’oralità. Chi non si ricorda di quando, al liceo, si parlava della figura dell’Aedo “cantore” e del Rapsodo “cucitore di canti” citandoli come figure performanti il racconto e la musica, depositarie entrambe dell’epica classica? Accompagnato dal suono della musica era anche lo Scop anglo-sassone, parente dello scandinavo Skald, detentori della mitologia pagana. Tutte queste figure, incaricate alla conservazione della memoria del proprio popolo, recitavano a memoria e accompagnati dalla musica, i testi orali (e poi scritti) dei loro miti caratterizzanti e fondativi e le gesta dei sovrani che regnavano su di loro. Malgrado gran parte delle strutture proprie di questi generi (ripetizioni, ritornelli, patronimici) siano comprensibili solo in seno all’oralità musicale, ora tutti questi testi sono studiati nei corsi di letteratura.

Ricercando materiale su questi temi si incontra un libro che, per questo tema, è considerato imprescindibile da molti studiosi: Music and Literature, A Comparison of the Arts di Calvin S. Brown. Già dalle prime pagine del suo saggio, Brown mette le cose in chiaro: questi generi letterari non possono essere compresi appieno se separati dalla loro componente musicale. Curiosamente il saggista pone questa premessa tra le prime necessarie per proporre uno studio che avvicini, associ le materie Musica e Letteratura. Curiosamente perché, se si legge Pitchfork, questa è esattamente la condanna che si fa all’accademia svedese per l’elezione di Dylan a vincitore del premio Nobel per la letteratura:

Reading him is fine, but considering Dylan’s words without his music is like watching a cooking show and declaring chocolate cake superb without ever having taken a bite. Sure looks good, but is that all that makes it delicious?

La domanda evidentemente ricade sull’evergreen: lo scopo. A cosa servono queste categorie? A cosa serve dire che Dylan è letteratura o dire che non lo è?
La redazione di Pitchfork va sul sicuro. Concorderebbe Brown che senza musica, leggendo Dylan sulla carta, stiamo assistendo ad un lavoro a metà, incompleto, privato di una sua parte fondante, integrante. Ma guardandoci intorno, nella nostra piccola quotidianità culturale possiamo osservare alcuni altri fattori interessanti.

1) Fatta eccezione per gli addetti ai lavori, nessuno protesta riguardo alla separazione della musica dalla poesia di molti altri autori. Generi poetici come la Canzone, Il Salmo, Il Madrigale, il Lamento erano, è risaputo, generi musicali, che ora vengono studiati nelle antologie letterarie come separati dal loro spartito. Persino nel caso in cui si sappia che l’autore desse ad intendere che senza la musica la sua poesia era incompleta. Un esempio su tutti sono certi componimenti della Pléiade francese.

2) Da una decina d’anni (e forse più) Dylan e De André appaiono volentieri anch’essi nelle antologie letterarie, malgrado la risaputa risolutezza di entrambi a non definirsi poeti.

3) Col cambiamento dei mezzi di comunicazione la poesia scritta ha perso molto terreno in termini di sostanze materiali. Essa è comprata e quindi promossa solo da pochi, per un consumo intimo o comunque in seno a piccole comunità di appassionati o esperti nei luoghi dedicati e nelle università. Ma il pubblico non di meno consuma materiale lirico in pianta stabile veicolato dalla musica. A prova di questa associazione spontanea i testi delle canzoni sono riprodotti convenzionalmente, salvo rare eccezioni, nella forma impaginata della poesia, che occupa solo la parte sinistra della pagina.

Una probabile motivazione del fatto che la parte scritta di questa musica sia stata separata dalla sua parte orale, performativa e quindi musicale può essere vista proprio nella sua epistemologia, nel senso in cui il testo sta in piedi da solo e si colloca in modo autonomo nella tradizione letteraria esercitando influenza su di essa indipendentemente dal fatto che la eserciti sulla storia della musica o meno. Sonorità, oralità, canto contrapposte alla letteratura come scrittura sono due mondi che hanno convissuto al punto che si potrebbe leggere l’intera storia della letteratura come spirale a doppia elica, come storia alternata della letteratura musicale o musicata e della letteratura scritta. In questa ottica leggere Dylan come letteratura non ci costringe a smettere di ascoltarlo come musica ma ci dice soltanto che qualcuno ha percepito e voluto proporre un suo valore letterario anche indipendentemente da quel suono, andando ad arricchire invece che a svilirne l’importanza. Chi ci dice che il nostro pop, il nostro rock e il nostro folk non siano che il ritorno della poesia alla sua raffigurazione di musa col flauto?

La distinzione è una categoria, le categorie servono a fare discernimento. Se musica diverso letteratura serve a far capire che un libretto d’opera non è la stessa cosa che un romanzo non possiamo negare che il libretto d’opera ha esercitato e subito dalla letteratura influenze indipendenti dalla sua composizione musicale. Dylan sosteneva che l’unico scrittore che conoscesse era Allen Ginsberg, non è questa una influenza? Vogliamo contare quante volte Dylan e la sua arte appaiano nei romanzi del solo Hornby? Non è questa una eredità…? Ad oggi molti si divertono anche su Youtube a dare piccole prove saggistiche del valore letterario di Dylan (per esempio qui).

Letteratura musicale, così legata alla letteratura tout court che è stata tagliata fuori dal suo contesto musicale perché anche senza la sua musica ha un valore immenso. Un valore immenso anche se incompleto, approfondibile ad altissimo livello proprio perché isolato. Il Nobel a Dylan è un gesto teorico da parte dell’accademia, forse un gesto politico, e in ogni caso pare che il vecchio Zimmerman l’abbia accettato e voglia pubblicare per l’occasione i suoi testi nel formato “letterario” di un libro. Per fare commenti più specifici aspetteremo la proclamazione ufficiale e gli sviluppi futuri. Per ora ci basti tenere a mente che, dati i precedenti, la separazione della musica dalla letteratura non è una novità e che può servire a dar valore alla letteratura che la musica contiene e veicola.


Poeta di strada 

di Giovanna Taverni

“In the room the women come and go / talking of Michelangelo”

Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock raccoglie alcuni tra i versi più intensi di T. S. Eliot, incontriamo queste donne che vanno e vengono parlando di Michelangelo Buonarroti, ruvidi artigli (“ragged claws”) che corrono sul fondo di mari silenziosi, e cucchiaini di caffè con cui misurare quella faccenda che si chiama vita: and in short, i was afraid. Lo si sente risalire tutto di un colpo lungo la schiena, questo canto, di tanto in tanto inciampando in rime, e in assonanze – while e smile, fingers e malingers – e dopo tutto, se ti mettessi a recitarlo ad alta voce, questo canto d’amore, lo sentiresti vibrare a parole piene che scalfiscono l’aria. Questo canto disperato viene composto da Eliot negli anni ’10 del Novecento, un cinquantennio dopo Bob Dylan scriverà questo verso in All Along The Watchtower, “while all the women came and went”, riadattando Eliot per una delle canzoni che diventeranno leggenda. All Along The Watchtower nella versione di Dylan nasce con un giro di accordi semplici (Lam, Sol, Fa, e via dicendo), Jimi Hendrix la riadatterà al suono della sua chitarra elettrica, ma nella versione acustica di Dylan è l’armonica a farla da padrone, la voce con cui accompagna le parole, una piccola recita poetica, un rag, un delirio. Anche nella lyric dylaniana incappiamo in rime – thief e relief, spoke e joke, fate e late -, anzi i versi di Eliot sono molto più liberi di quelli che scrive Dylan nel 1968. Ma Dylan deve incastrare le parole nella musica, non ha la libertà della carta e della penna: deve necessariamente risalire alle vecchie regole che lentamente la poesia ha abbandonato nell’esplosione creativa del Novecento. Le parole devono inchinarsi ai suoni, come magnifiche puttane.

È difficile riuscire a essere liberi con una canzone – riuscire a farvi entrare tutto. Le canzoni hanno troppi limiti… Woody Guthrie una volta mi disse che le canzoni non devono essere tali, ma si sbagliava; devono avere una forma, per potersi adattare alla musica. Si possono modificare le parole e in parte anche la metrica, ma una struttura deve pur sempre esserci; ho raggiunto un maggiore grado di libertà con le mie canzoni più recenti, ma nonostante tutto mi sento ancora limitato. Ecco perché scrivo un sacco di poesie, se questa è la parola giusta per indicare ciò che scrivo; la poesia può creare da sé la propria forma. (Bob Dylan)

Con Pete Seger, 1964

Non è una novità quella della parola che si piega a una formula o una forzatura se pensiamo al sonetto, a quartine e terzine, e schemi in stile ABBA – ABBA – CDE – EDC. La Divina Commedia in questo è un delitto perfetto, 3 cantiche di 33 canti ciascuno (più un proemio direttamente dall’inferno) scritti in terzine. Una meravigliosa follia. Però a volte, mentre leggiamo la Commedia, riusciamo a sentire la musica: “e quindi uscimmo a riveder le stelle” (ripetetelo ad alta voce, questo verso, e suonerà – come risuona da sempre nelle orecchie). Poesia e canzone si intrecciano, sarà facile pensare al primissimo significato della parola canzone, alla chanson dei poeti provenziali, ai ritornelli e refrain, alla commistione sempre continua di letteratura e musica. Per esempio c’è un sonetto del poeta spagnolo Francisco De Quevedo che mi fa sempre cantare e si conclude così, polvo seràn, mas polvo enamorado – saran terra, ma terra innamorata. Separare la musica da certi componimenti è quasi impossibile, le parole sono parte di una sorta di canzoniere, e acquistano una loro forza orale mentre le reciti ad alta voce – grazie a rime, endecasillabi, assonanze, e anche alle arbitrarie scelte di parole. La carta in fondo è sempre talmente bianca che potenzialmente è capace di accogliere tutto o niente.

Quando la parola si è liberata sulla carta da ogni genere di forzatura, la poesia è diventata un’esperienza totale di libertà, come canta Paul Eluard: sono nato per conoscerti / per nominarti / Libertà. Se Baudelaire scriveva ancora in sonetti classici (come quella Une passante ripresa in forma musica da Brassens e De André), poeti come Eluard o Apollinaire liberano completamente le briglie della parola scritta, e possono farlo solo su carta – perché la carta non ha limiti (se non quelli dell’editore, ma non confondiamo la letteratura con l’oggetto libro – che è solo un supporto delle parole). La parola diventa anarchia pura, non ha più bisogno di rime baciate e allitterazioni, non deve piegarsi a niente. È il movimento dei tempi, mentre dall’arte figurativa si passava alle tele completamente bianche e al dropping di Pollock come un grido rivoluzionario, in letteratura (di cui chiaramente la poesia fa parte) i versi di Allen Ginsberg facevano il verso a Walt Withman come padre rivoluzionario della libertà poetica americana. E poi ancora Bukowski, Carver, e gli haiku occidentali. La libertà implicava una difficoltà maggiore nella ricerca di immagini e istantanee, ma la musica non dovevamo dimenticarla. Quando Eugenio Montale va a ritirare il premio Nobel per la Letteratura nel 1975, nel suo discorso parla proprio di musica:

Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto ritengo ch’essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e musica poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la musica si fa sentire. La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche sorgono i metri, le strofe, le così dette forme chiuse. Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della poesia è il suono.

E così, se Federico Garcia Lorca evoca spesso le chitarre nei suoi testi, la chitarra di Bob Dylan evoca un’attenzione alle parole nelle sue canzoni – tanto che questo Nobel per la Letteratura, al di là di tutti gli inutili strascichi e brusii, non è una vera sorpresa, e la sua candidatura al premio è vecchia quanto quella di un Roth. In fondo parliamo di parole, meravigliosi incastri, musica, versi, di un poeta delle strade americane, che ha trovato una perfetta forma espressiva suonando, ma così universale che – fosse nato nell’antica Grecia – avrebbe comunque trovato modo di dire la sua. Questa universalità dylaniana la ritroviamo attraversando gli album del cantautore di Duluth: canzoni come Don’t Think Twice, It’s All Right ci portano a casa, nel cantuccio della più banale disperazione umana, Desolation Row ci fa attraversare le strade e le epoche con uno splendido racconto che supera i confini di spazio e tempo, Sad Eyed Lady of the Lawlands è una meravigliosa dichiarazione alla signora dagli occhi tristi che reinventa il linguaggio (“my warehouse eyes, my Arabian drums / should I leave them by your gate / or, sad-eyed lady, should I wait?”). I cambi di voce di Dylan all’interno della sua stessa discografia aiutano invece a dare un ritmo alla sua narrazione musicale: Nashville Skyline è un esempio. La sua voce ora diventa più profonda e corposa, quasi come se fossimo di fronte a un nuovissimo shock acustico ora Dylan sussurra canti d’amore e invocazioni protettive come Girl From the North Country e Lay Lady Lay, fino alla disperata I Threw It All Away.

Ci troviamo di fronte a un cantautore di un altro livello, tutti hanno dovuto a loro modo fare i conti con Bob Dylan, persino gli stra-evocati Leonard Cohen e Tom Waits di queste faticose giornate. Non me ne vogliano coheniani e waitsiani, ma Dylan è davvero l’unico cantautore che avrebbe potuto vincere un Nobel per la Letteratura, l’unico che si è addentrato nel linguaggio fino a rivoluzionarlo e rivisitarlo, l’unico che riesca a condensare in una sola figura l’attitudine da folksinger con la vocazione poetica, chitarra in spalla, armonica in bocca, rag insistenti che escono fuori a raccontarci storie, davvero l’unico che può stare lassù – tra un Eliot e un Faulkner. “Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana“, vuol dire averla rivoluzionata questa canzone, scartavetrata, messa a lucido, rivisitata, come l’Highway 61 in cui imbraccia in mano l’elettrica, per poi tornare a Blonde on Blonde, cantarci come fa l’amore una donna, trascinarci via dentro una I Want You, e andare avanti – a movimenti e storie – a botte di chitarra, fogli di carta su cui segnare appunti, lunghi estratti di parole da incastrare nella melodia, nell’anti-melodia, nella musica, perché è così che va da un certo momento in poi del Novecento: la poesia ritrova la musica.

E no, l’oggetto libro non è davvero importante: che differenza fa se le parole sono incastrate su tavolette d’argilla in cuneiformi, o passate di bocca in bocca per generazioni come storie, favole o canti, miti epici, canzoni popolari di menestrelli, versi di struggimento arrivati fino a noi, a raccontarci l’unica tremenda verità di questa faccenda umana: le epoche cambiano, i supporti tecnologici pure, ma l’uomo ha sempre fatto i conti con gli stessi sentimenti. Bob Dylan sopra Johannes Gutenberg. Come quel fantasma di Shakespeare che a teatro ci mostrava quanto siamo insopportabili, meschini, ma capaci allo stesso modo di amare e rincorrere la bellezza per conservarla nel taschino della giacca (una giacca che è cambiata tantissimo dai tempi dell’antica Grecia a oggi, ma che fondamentalmente è sempre servita a una sola cosa: coprirci dal freddo).

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