“Che fine ha fatto Il trono di spade?”

(spoiler alert)

Non ho più l’età per stare sveglia per una serie tv e guardarne la diretta, ma lunedì mattina, caffè in mano, ero anch’io davanti lo schermo a recuperare il tanto atteso finale della settima stagione de Il trono di spade. Ben lontana da qualsiasi supporto tecnologico che minacciasse lo spoiler.
Al termine della visione, non un sospiro di sollievo, neanche il fantasma di un sentimento di stupore. Solo la rassegnazione di chi constata, privo della necessità di un confronto entustiastico con chi ha già visto, del febbricitante e spasmodico appetito di ciò che viene dopo.
I doveri da studentessa mi hanno poi richiamato e trascinato a studiare a casa di un compagno di università. Qui la sorpresa: anche lui stava guardando Il trono di spade, ma non l’ultima, il pilot della prima stagione di cui ho potuto apprezzare anch’io gli ultimi minuti.

 Ah eccolo, Il trono di spade! Che fine ha fatto ora?!

D’altro canto, l’annunciato distacco dagli scritti, probabilmente ancora confusi, di George R.R. Martin avrebbe inevitabilmente condotto a una rimodellazione di stile e dinamiche. Di fronte a una produzione così corposa e una richiesta così alta, è stato giusto andare avanti. Il lavoro di scrittura della stagione appena conclusa, però, è apparso fin da subito spento, carico di avvenimenti decisivi, ma fondamentalmente spoglio. In un gioco di appiattimenti, snaturalizzazioni e strizzatine d’occhio rivolte a quel tipo di pubblico che di base richiede all’intrattenimento solo il drama. E gli ottanta minuti de The Dragon and The Wolf  non smentiscono, anzi confermano questo triste andazzo.

Non che gli intrecci narrativi partoriti precedentemente fossero carenti di dramma e sensazionalismo. Il trono di spade ci ha da subito tuffati in un universo fantasy di stampo medioevale in cui lo spessore umano di quel contesto storico si rivelava in maniera vivida e spontanea. Tra violenza, amori incestuosi, gelosie e brame di potere. In cui la lotta al trono veniva alimentata da una desiderio cieco e furente, ma pur sempre autentico. Tutti i personaggi si stagliavano in una tela così intricata ma coerente, in modo peculiare, non confondibile, muovendo le corde a volte del Bene altre del Male. In un clima cupo, spietato, in cui solo gli sciocchi non sarebbero stati costantemente all’erta.

Ed è proprio questo il primo tassello mancante della settima stagione di Game of Thrones: l’assenza di tensione. Alto tradimento a sé stessa per una serie divenuta cult proprio perché con fierezza si distanziava dalle altre per le beffe che architettava nei confronti dello spettatore e dei personaggi. Chiunque poteva morire in Game of Thrones, cosa aspettarsi d’altronde in un continente nel pieno stato di guerra? Senza distinzioni tra belli e buoni, eroi e nemici (mai stati distinti o etichettati), amanti e traditori. Ognuno, da un momento all’altro, poteva essere vittima, boia e mandante.
Il trono di spade sottolineava con una mai negata nota di sadismo la vulnerabilità umana, senza mai prendere la parti di nessuno, né indirizzare le simpatie verso l’uno o l’altro schieramento, le cui parti erano spesso soggette a rimescolamenti, tradimenti e alleanze inattese.

Al gioco del trono o si vince o si muore, sentenziava Cersei agli albori di tutto. Proprio lei, l’altra regina, Lannister fino al midollo. Leonessa sofferente e protettiva verso la prole che ricordiamo bramare vendetta, sopportare umiliazioni, bruciare vivi i propri detrattori senza pensarci due volte. Unica fonte di apprensione al di qua della barriera, nel mondo dei vivi, dove ormai ogni altra cosa si mostra invece scialba.

Da Jon e Daenerys nel loro avvicinamento sentimentale dalle vene adolescianziali alla rivelazione sul loro legame di sangue, il finale eclatante più citofonato di sempre. (Piccola nota di disappunto per gli sceneggiatori che hanno ridotto il personaggio profondissimo di Davos a puro mezzo di allusioni romantiche in questa linea narrativa tra Dawson’s Creek e Beautiful). Da Jon, ancora, palesemente miracolato da uno zio Benjen improvviso e inspiegabile, così come i corvi capaci di piegare lo spazio-tempo per salvare il cocco della situazione. E poi le sorelle Stark riunite che bisticciano per poi ricongiungersi senza spiegazioni contro Ditocorto, in un plot twist desideratissimo, ma privo della costruzione accurata che meritava. (Altra nota di disappunto: un vero Stark non avrebbe mai pronunciato una condanna a morte senza poi prendersi diretto carico dell’esecuzione). Solo per citare i personaggi più importanti, la lista potrebbe essere ben più lunga.

La settima stagione de Il trono di spade rivela quindi un’allarmante tendenza all’appiattimento di ogni vetta che la serie aveva sapientemente scalato in questi anni, distinguendosi in un palinsesto televisivo generalmente scontato. Rinuncia all’imprevedibilità intelligente di cui era stata capace, piegandosi al fan-service che raccoglie solo soldi. E la delusione triplica quando le premesse economiche e non avrebbero potuto far sperare in qualcosa di colossale. Stesso punto di partenza che ora riguarda l’ottava, le cui riprese inizieranno in ottobre e che conterà solo sei episodi di durata però maggiorata. Toccherà quindi aspettare più di un anno, se non il 2019, per scoprire se la Grande Guerra riporterà Westeros nello stato in cui è stato capace di meravigliare.

 

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