Giorgio Falco e la disillusione della classe disagiata

Due volti della letteratura italiana contemporanea (Claudia Durastanti e Giorgio Falco) per offrire una panoramica della scena letteraria nel nostro paese.

Falco, con il suo ultimo libro Ipotesi di una sconfitta, si inserisce nel filone italiano di autobiografie e autofiction attraverso una voce dimessa, nient’affatto ingombrante, eppure alienante, distorta, capace di osservare i bordi del flusso quotidiano e di tracciare da questa posizione liminare gli estremi di un sistema culturale tutto di superficie, mostrandone i contorni paradossali, e riuscendo in tal modo a scendere in profondità. Già in Sottofondo italiano svela il gioco comune di capovolgimento tra superficie e profondità, in cui siamo tutti relegati:

«Il sottofondo scava nell’intimo di ognuno di noi, per trasportarci in superficie, nel sottofondo commerciale così invasivo da non farci sentire il destino comune, il senso di prigionia di una nuova stagione ritmata dai jingle, dalle promozioni. Barattiamo il silenzio che precede la lotta con una ninna nanna. I gesti decisivi diventano secondari, e il sottofondo dominante, che pensavamo relegato in secondo piano, diventa la vita.»

Analizza questo ribaltamento percettivo inserendosi in un altro filone letterario, legato all’analisi del sistema lavorativo attuale e della sua interazione con l’individuo. Il recente Teoria della classe disagiata si è riproposto di disegnare il profilo di una generazione borghese, cresciuta nell’agiatezza, intenta a posticipare il più possibile il proprio ingresso nel mondo lavorativo per sfuggire all’inevitabile declassamento. Invece Giorgio Falco mostra l’altra probabile faccia di una generazione disillusa, rielabora la sua personale disaffezione alla retorica del lavoro, non dovuta al mancato raggiungimento di un determinato status, alla pretesa di ottenerlo, ma all’effettiva mancanza di desiderio. Il vuoto di desiderio che Falco continuamente cerca di rimettere in discussione, in un tentativo di adattamento all’ambiente durato diversi anni, è nell’occhio di una forza centripeta che lo spinge, volente o nolente, ad autoboiccottarsi continuamente. La sua disaffezione non nasce quindi da una delusione delle aspettative, ma dalla mancanza di aspettative.

L’andamento del libro sembra assumere una struttura circolare, nonostante la sua capacità di sfuggire all’asserzione definitiva, alla tendenza a «scolpire il passato». Già all’inizio della sua iniziazione alla “vita vera”, già prima delle sue effettive esperienze lavorative, Falco è pervaso dalla percezione di partecipare a una gigantesca impostura, della quale dovrà divenire artefice, e quindi complice. Ci troviamo alle prime lezioni di guida con il padre:

«Dovevo sforzarmi di credere al mondo che mi circondava, un mondo che mio padre, nonostante i conflitti interiori, onorava ogni giorno […] persino le fronde degli alberi mi sembravano un’impostura, mi stavo immettendo in quel flusso, grazie alla patente sarei stato uno di loro, una specie di mio padre. Le mie mani sul volante, come tutti: la dimostrazione che non eravamo mai usciti da un gioco d’infanzia, le mani erano un giocattolo, solo due mani giocattolo potevano stringere lo sterzo Fiat 131 e sopportare quel tipo di realtà intorno.»

La diffidenza originaria nasce, come già spiegato in Sottofondo italiano, dalla percezione di appartenere a uno stato ancora mafioso e fascista, è ancorata a determinazioni storiche tutte italiane. Grazie a questo iniziale campanello d’allarme Falco, nelle sue molteplici esperienze lavorative, è in grado di assumere un occhio straniato, con il quale costantemente rileva le assurdità, intese come gioco a perdere, del nuovo sistema lavorativo occidentale. Alla fiducia del padre in una corrispondenza univoca tra parole e azioni, azioni e lavoro, lavoro e uomo, a questa innocenza non priva di inquietudini, viene sostituita la disillusione di Falco che, prima di procedere a una totale sconfitta (o vittoria), in età giovanile cerca di recuperare il consolante racconto paterno novecentesco. Ma il cambiamento è irreversibile. Tutto è superficie, e questa definitiva evidenza viene palesata alla fine del libro, quando Falco, ormai disoccupato, affianca il suo nuovo “lavoro” di scommettitore alla scrittura. L’alienazione prodotta, la sospensione di responsabilità, l’appartenenza a “un mondo a parte” , l’esaltazione per una vittoria inutile (fonte solo di ulteriore dipendenza), l’astrazione e la spettacolarizzazione, lo portano a domandarsi esplicitamente: c’è una reale differenza tra le scommesse e il lavoro?

«Tutti gestivano l’azienda in modo ludico, non credevano davvero al lavoro, erano invasi dalle menzogne ludiche, si erano spinti troppo in là con le bugie infantili. Il lavoro e quindi il mondo del lavoro e il mondo intero erano puro intrattenimento, un cartone animato che non aveva più bisogno di fingere.»

L’intera riflessione nasce da una serie di conseguenze logiche: le scommesse, che in genere sono un gioco, sono diventate un lavoro, e in fondo, a pensarci bene, il lavoro in genere è un gioco. Falco allora recupera una salutare dimensione di uscita dal ruolo fittizio e ludico, nel quale gli altri sono rimasti impigliati. Questo perché, nonostante si tenda a definire il mondo del lavoro, anche a livello linguistico, come un mondo a parte, esso è giunto a una tale disgregazione oggettiva, da essere rintracciabile in ogni aspetto del soggetto. Non si smette mai di lavorare, soprattutto quando si assumono le spoglie del consumatore, anche perché il lavoro non è più niente di preciso. La voracità onnicomprensiva del nuovo lavoro, si incarna, ad esempio, in Solo Cattiveria, team-leader di Falco nell’azienda di telefonia: la competitività imposta dai ritmi e dalle aspirazioni carrieristiche si installa su una cattiveria naturale, la amplifica attraverso la spettacolarizzazione del proprio potere, fino a modificarne il corpo e le abitudini alimentari: accolto il cliché della donna milanese magra in carriera, Solo Cattiveria si limita a grattare il fondo del suo unico yogurt giornaliero fissando uno schermo.

Il settore terziario appare quindi come un’evidente impostura: ruoli svuotati da funzionalità, burocrazia come arma di esercizio del potere, di frode ai danni dei clienti, lo stesso malfunzionamento è stato integrato nel sistema, capitalizzato e quindi incentivato («l’azienda italiana di terziario incentivava il meccanismo fraudolento poiché era pagata a pratica. Ogni lettera era un pezzo, ogni operatore doveva produrre sei pezzi all’ora»). In questo schiacciamento di energia produttiva e finzione, è inevitabile la degenerazione del lavoro in uno spettacolo che guarda se stesso, e che nel farlo trova il suo alimento. Ciò che conta è fingere produttività ed efficienza, per continuare tutti insieme a smaltire le ore di lavoro giornaliere, guadagnare il minimo che permetta di consumare, lavorare nel consumare e tornare a casa a guardare la tv. Esattamente quella che Debord chiama “sopravvivenza aumentata”: ciò che conta non è più la produttività, perché il fine non è più il soddisfacimento di bisogni naturali, ma di pseudobisogni artificiali, che vanno creati esclusivamente per consentire una consumazione di quanto prodotto, e garantire in tal modo che il sistema circolare si alimenti. Lo spettacolo è lo specchio e il motore di questo sistema.

Lo spettacolo per Debord «non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone mediato dalle immagini». Falco ci fornisce visivamente l’allegoria di questo enunciato e la sua estremizzazione nella descrizione del concerto di Bruce Springsteen, al quale partecipò come sempre ai margini. Lo spettacolo avviene all’interno di uno stadio, Falco si trova sul bordo del piazzale esteriore insieme a migliaia di persone sulle quali svetta il maxischermo, l’immagine di ciò che avviene realmente all’interno che basta, in quanto tale, a fornire l’euforia dell’esserci, lo spettacolo glorificato in quanto presenza pura:

«Un’ovazione che sembrava una cascata d’acqua di riporto trasformata in lavacro, e dallo stadio tracimava verso lo schermo indecifrabile, e dallo schermo indecifrabile nel piazzale assiepato da migliaia di persone sedute, che avevano iniziato a urlare con le teste all’insù, come per comunicare il proprio assenso a un gioco inventato da altri, qualcosa che avveniva oltre la cortina. Springsteen doveva essere uscito dal palco ma non vedevo nulla, forse anche coloro che urlavano nel piazzale, più avanti di me, non vedevano nulla, e perfino molti dentro lo stadio […] non vedevano nulla, ma urlavano, urlavano tutti…»

Siamo già oltre Debord: non è neanche l’immagine a mediare il rapporto sociale, ma il simulacro di quest’ultima. Falco descrive minuziosamente gli effetti di questa mutazione culturale, sia in politica, sia in ambito lavorativo. Dal momento in cui lo spettacolo è immagine della realtà, e la realtà diventa immagine dello spettacolo, dal momento in cui il contagio è bilaterale, gli slogan politici diventano facilmente slogan pubblicitari, e il carattere asciutto di una sentenza semplicistica e vendibile, orecchiabile, diventa il contenuto di un programma politico. È impossibile partecipare alla manifestazione perché la sua struttura, la sua grammatica sono stati assorbiti dalla mutazione culturale, e con essi anche i contenuti. Falco sovrappone questi due piani, divenuti ormai identici, attraverso una giustapposizione percettiva: si trova in un bar durante una manifestazione studentesca e le risate finte del televisore si mescolano ai cori svuotati della sua generazione studentesca. Il significato sta nell’atto di pronunciare.

La dinamica si riproduce, identica a se stessa, nel lavoro. Lo spettacolo è l’immagine dell’economia dominante, ormai sganciata da un fine, ma alimentata dallo sviluppo autoreferenziale. Ancora Debord parla di proletarizzazione del mondo, in cui a causa della divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario sull’attività svolta. Come Falco afferma, «L’Occidente era solo un capannone». Ma il nuovo orizzonte economico è l’inattività, il non-lavoro, che però non è liberazione dal lavoro: è un’improduttività piegata ancora alle dinamiche economiche, la reiterazione estrema dell’alienazione. Dal momento che ora il prodotto del lavoratore consiste nella sua stessa vita (in quanto lavoratore-consumatore, lavoratore a tempo pieno) , è proprio dalla vita che viene alienato.

Per far ciò, per svincolare il lavoratore dal suo prodotto, e il lavoro dalla produzione, è necessario un progressivo grado di astrazione. Falco ci fornisce il senso di questa astrazione utilizzando, al di là di riferimenti espliciti, una tecnica narrativa progressivamente smaterializzata, incapace di ritrovare una corrispondenza tra il linguaggio e le cose, e poi tra il significante e il significato. Con la perdita del primo rapporto abbandona il paterno ‘900, con la distruzione del secondo decompone anche la sua epoca, la nuova economia. Nel primo caso, lo scarto è sottolineato dalla fantasia dell’autore, dalla sua tendenza a donare soprannomi ai personaggi incontrati, per ricomporre una realtà dotata di senso. È glossato dal suo occhio straniato che, anche attraverso uno smottamento linguistico capace di giocare sull’onomastica, accetta il gioco di finzioni, e ne trae un racconto di vita vera. Così il suo collega vetrinista diventa Olaf, la teamleader nella compagnia telefonica diventa Solo Cattiveria e così via. La perdita del secondo rapporto, quello tra significante e significato, è invece raggiunta verso la fine del libro, è posta sotto il segno dell’incomprensibilità, piuttosto che della fantasia, quando, ormai inserito nel settore terziario, il linguaggio burocratico diventa un’accozzaglia di blocchi di significante precostituiti, incomprensibili ai clienti:

«e poi manager, minimanager e teamleader parlavano la stessa lingua, vivevano il mondo del loro agire continuo, il loro agire continuo era solo astrazione di numeri e parole, giogo linguistico di asserzioni così energiche e convinte da sembrare indistruttibili, ma solo nell’istante in cui si ripetevano, istante che coincideva con il loro esaurirsi, e il loro esaurirsi era comunicazione»

Ancora una volta, è l’atto di pronunciare a dotare di senso la comunicazione, così come al concerto di Springsteen era la pura presenza a donare valore. Ovunque è superficie impenetrabile, ovunque è vuota manifestazione. Così, dopo aver vissuto le proprie esperienze come un racconto, dopo aver dato nuovi nomi a realtà e personaggi, per la prima volta è Falco ad essere soprannominato, ad essere inglobato in un racconto surreale: all’interno dell’azienda diventa GFALCO, e poi ZZGFAI. Questo assorbimento totalizzante e definitivo nell’astrazione gli impedisce ormai di comprendere e quindi nominare, poiché entrato definitivamente in un nuovo linguaggio, e dunque in una nuova realtà. Allontanato dalla sede principale in quanto scrittore e sindacalista, Falco si trincera per diversi mesi all’interno di uno sgabuzzino, suo nuovo “ufficio”, per riempire l’orario lavorativo attraverso la scrittura, un boicottaggio di cui l’amministrazione è ben cosciente. Continua così per diciotto mesi, fino all’arrivo di Solo Cattiveria 2, un’altra teamleader che irrompe nello “Sgabuzzis” per porre fine alla sua segregazione:

«L’avevo soprannominata Solo Cattiveria 2. Sarei stato capace di dedicarle alcune pagine come avevo fatto con Solo Cattiveria o mi sarei limitato alla sua fugace irruzione dentro lo Sgabuzzis?[…] In ogni caso, il problema ero io. Stravolto , non vedevo persone, né personaggi. Non esisteva più alcun Olaf. Prima di rinchiudermi dentro lo Sgabuzzis, all’interno dell’azienda di terziario non avevo sentito storie degne dei miei vecchi compagni di lavoro.»

Non solo i personaggi sono ormai interscambiabili, riproducibili, ma ogni narrazione è preclusa. Così, anche a livello narrativo, durante l’intero romanzo si passa da Nino (collega di lavoro del padre, dotato di una sua biografia e di un suo nome), a Olaf (vetrinista soprannominato da Falco, le cui vicende vengono fornite già mediate, sottoforma del racconto che il vetrinista ne dà), fino a giungere a Solo Cattiveria 2 (surrogato di un altro personaggio, privo di profilo). L’alienazione ha ormai contaminato linguaggio e percezione, Falco è giunto al limite di resilienza.

Guy Debord e la società dello spettacolo

 

La scrittura è quindi il frutto del progressivo sgretolarsi del cordone ombelicale che lo legava al decoro del padre: la retorica del lavoro, la conquista lavorativa come vittoria personale, come adattamento ben riuscito, la partecipazione sentita e convinta all’attuale sistema economico. Un cordone da sempre percepito come vincolante, piuttosto che come rassicurante, tirato allo stremo da Falco, alla ricerca di quel margine invisibile se si resta vicini al centro di irraggiamento della menzogna, quel margine dove accade la vita. Questo atteggiamento è ben descritto dall’immagine del guinzaglio compratogli dalla madre per portarlo a spasso da bambino: «vivevo sul bordo di qualcosa, ai margini di un centro materno appiccicaticcio, non desideravo un paio di forbici per fuggire lasciando l’estremità vuota, rimanevo per ascoltare le conversazioni di mia madre». È il resistere all’interno che permette di osservare e, eventualmente, di dissentire colpendo al cuore di un nuovo sistema culturale, conosciuto e sofferto («essere ai margini da un lato ti mette in una condizione favorevole per vedere, dall’altro ti rende sensibile alla diserzione»).

In ambito lavorativo, l’occhio straniato di Falco è anche conseguenza dell’assorbimento monco di un sistema: lo scrittore ha riconosciuto la spettacolarizzazione, ha cercato, nei limiti, di allontanarsi dal meccanismo di consumo, così facendo ha spezzato un sistema che vede come fine ultimo della sua produzione (laddove rimasta) la consumazione. Tranciando il meccanismo ribalta lo schema, è incapace di credere nel lavoro in quanto lavoro, è quindi la voce lucida di una generazione che subisce il progressivo smantellamento del lavoro, uno smantellamento che in realtà è reiterazione astratta dell’alienazione delle fabbriche. In tal modo, tutto appare capovolto: se l’alienazione è nel lavoro, allora l’occhio straniato di Falco diventa recupero di una visione ancorata alla realtà (qualunque cosa significhi); se la vittoria lavorativa degli altri consiste nella loro sconfitta personale, allora la sconfitta lavorativa di Falco è la sua vittoria personale (in questo gap tra cultura dominante e Falco-individuo si inserisce forse il significato di “ipotesi di una sconfitta”, nella scrittura si colloca la sua possibilità di riscatto); se il lavoro è pura improduttività astratta, allora la scrittura è il recupero di «questa cosa che sta negli oggetti, nella materia che testimonia la consunzione del mondo, cresce e perisce rinascendo ogni volta, invisibile eppure di una propria fisicità già presente».

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