House Of Cards senza Frank Underwood è una reunion dei Nirvana senza Cobain

House Of Cards

Diciamo subito che era prevedibile. Nel corso delle ultime stagioni la trama di House Of Cards stava già soffrendo, non regalava poi così tante sorprese e colpi di scena, si arrotolava su se stessa, talvolta annoiava. Con l’estromissione di Kevin Spacey per la final season, il destino della serie pioniera di Netflix — quella che di fatto ne ha inaugurato il successo — sembrava avviarsi verso il suo fatale tramonto. E allora non è più solo un caso se il giorno scelto per il lancio dell’ultima stagione, quella senza Frank Underwood, sia capitato il 2 di Novembre — giornata dedicata alla memoria dei trapassati. E non c’era certo bisogno di spoiler per immaginare come gli sceneggiatori avrebbero deciso di liberarsi di Underwood: l’unica soluzione era farlo morire; di conseguenza, Claire Underwood sarebbe stata reinventata nel ruolo di unica grande protagonista, una Lady Macbeth contemporanea assetata di potere. Così accade: troveremo Claire parlare rivolta alle telecamere, a tu per tu con lo spettatore come avrebbe fatto Frank. Eppure la sensazione resta quella di assistere a una sorta di show commemorativo.

House Of Cards è sempre stato soprattutto Frank Underwood, e se ne rendono ben conto anche gli sceneggiatori che si sono trovati di fronte alla difficoltà di scrivere questa stagione con l’ingombrante assenza del main character. La risolvono senza cancellare il personaggio, che continua ad aleggiare come un fantasma sullo sfondo: così Frank resta protagonista anche se non c’è, rivive nei ricordi di quelli che sono rimasti, nei discorsi di Doug, e persino nel sollievo – finto? reale? – di Claire. Insomma, Frank Underwood è ancora lì.

Ne è passato di tempo da quelle sigarette a una finestra su Washington: da allora gli Underwood hanno scalato il potere, hanno smesso di fumare e si sono trasferiti alla Casa Bianca (e da quel momento la serie ha pure cominciato a perdere un po’ del mordente iniziale). Il piano machiavellico per arrivare alla presidenza non si è risparmiato nulla, nemmeno il sangue e gli omicidi efferati. Ma in fondo ci piaceva guardare negli Underwood quello che non avremmo mai accettato di essere, la vecchia storia del potere per il potere che non scende a compromessi con niente e nessuno, che si consuma, scalpita, tradisce, e invoca la dea bendata. Una volta la raccontava Shakespeare, oggi lo fa Netflix. Eppure il poeta e drammaturgo inglese non ha mai dovuto cambiare una tragedia in corso tagliando un Amleto. È questo il grande buco di una trama che sapevamo non poter funzionare, senza parlare del buco da 39 milioni di dollari per le casse Netflix dopo il licenziamento di Kevin Spacey.

Non stupisce se dagli States arrivano già recensioni e commenti non certo entusiasti al risultato finale — anche se bisogna fare un plauso allo sforzo degli sceneggiatori, e a Robin Wright, che da sola fa tutto quel che può (— sempre bravissima, troppo sola). Ma il vero grande problema di House Of Cards è che noi spettatori ci eravamo abituati a qualunque genere di nefandezza, e quest’ultima serie con il taglio del grande scellerato finisce per essere un prodotto edulcorato. Una soap politica amputata del suo potenziale, delle caratteristiche che l’hanno resa serie di punta e lancio Netflix. È questo il gran peccato per chi ha seguito le sei stagioni di Hoc: non aver potuto godere della final season che avremmo meritato di vedere.

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