Il Giorno della Nutria | Andrea Zandomeneghi

E comunque, quando la sciagurata vicenda principiò, quel martedì mattina di fine aprile, io non ero granché lucido, anzi sarebbe più corretto dire che versavo in un penoso stato di rincoglionimento stordito e dolorante. Correnti poderose di agonia cefalgica e umorale da postsbronza. Anche per questo, soprattutto per questo, credo, fui così turbato dal rinvenimento del cadavere di nutria scorticato che andava oscenamente scongelandosi, infatti era stato inequivocabilmente congelato in precedenza, buttato sulle scale esterne – che non danno direttamente sulla strada, danno sul giardino

Bastano le prime righe per immergersi pienamente nell’atmosfera che permea ogni pagina del romanzo d’esordio di Andrea Zandomeneghi, toscano di Capalbio, classe 1983 e un passato da direttore della rivista CrapulaClub. Il Giorno della Nutria è arrivato in tutte le librerie italiane il 7 febbraio per la Tunué di Vanni Santoni.

Protagonista del libro è Davide che vive con la madre malata di Alzheimer e il nipote Giulio e che una mattina – quel martedì mattina di fine aprile – dopo una delle tante sbronze che costellano la sua vita, si ritrova il cadavere di una nutria congelata sulle scale di casa. Nell’arco di poche ore – in quello che è una sorta di thriller psicologico sui generis – Davide cercherà di capire chi abbia potuto lasciarla lì e, soprattutto, perché, conducendo il lettore in un sottosuolo ora asfissiante, ora incredibilmente divertente – riflesso dell’anima angosciata ma mai doma del protagonista.

Quella della voce narrante è “una storia semplice, è la storia di un ragazzetto che giocava a pallone – fissato con il calcio – e aveva qualche pulsione sessuale, come tutti”. Una laurea in architettura rimasta lì in un cassetto, due amici più giovani: “Emanuele sciupato dal suo vissuto ma bello, lineamenti eleganti, mascolini e volitivi, occhi grigi intensi incastonati nelle occhiaie, volto pulito […] Intellettualoide inveterato, un tipo decisamente nervoso e irritabile, uno di quei timidi esplosivi, uno di quegli pseudo casti iperlibidici, uno di quelli che considera la Calzecchi Onesti l’unica traduttrice di Omero accettabile” ed Esteban – “vent’anni, lineamenti dolci come miele e la pelle più liscia che sia dato immaginare, di una tonalità peculiare, non caucasica anche se tendente al bianco. Un olivastro spento, un olivastro lieve e pallido”. Si ritrovano la sera nella canonica di Don Stefano a giocare a Risiko, a bere, a dissertare di cinema, letteratura, vita.

Bastano pochi tratti a Zandomeneghi – però essenziali – per far entrare in scena i protagonisti del libro. I due ragazzi, il nipote Giulio, la domestica – rumena e madre di Esteban – Dorota.

Ma la vera vita di Davide è tutta dentro l’angusto spazio della propria nevrosi: apofatico – “perché le cose divine (che son le cose ultime) le ritengo fondamentali (per me) e le voglio conoscere, anche se non ho Dio, non mi limito a dire “non lo posso sapere, ’sti cazzi, beviamo un prosecco ascoltando Mahler”” – non “bipolare, ma diopolare”, bisessuale, gravemente cefalgico, alcolizzato. Fin dalle primissime pagine Zandomeneghi riversa – attraverso la voce di Davide – una quantità impressionante di citazioni in un continuo mescolare l’alto e il basso attraverso una scrittura che sorprende per lo stile, l’estro della fantasia e la capacità – improvvisa sul finale – di convergere verso la tragedia che si cela dietro il deragliamento del suo protagonista.

Si ha la sensazione di ascoltare un erede del protagonista de Le memorie del sottosuolo di Dostoevskij; a pagina ventuno la comparsa de “il famoso pensiero euclideo di Ivan Karamazov” conferma i sospetti ma è intorno a pagina cinquanta, quando vengono citate le Memorie, I Fratelli Karamazov, e infine L’Idiota – “l’apice febbrile lo raggiunsi quando ne lessi senza soluzione di continuità l’intera prima parte, (238 pagine per una giornata, dall’arrivo del Principe ai centomila rubli buttati nel camino da Nastasja Filippovna durante la sua festa) in uno stato indemoniato di coscienza” – che arriva la definitiva conferma. Davide è un piccolo uomo della provincia – “di questo porcile di Itaca […] borghetto postrurale che non aveva storia sotto di sé, poggiava sul vuoto e io a volte questa vertigine la sentivo fisicamente” che, pur vivendo in un limbo fatto di ragazze e ragazzi e di serate trascorse nei pochi bar della provincia, sembra esistere veramente solo dentro i meandri della sua mente quasi che le terribili cefalee che lo colpiscono non fossero altro che sintomi psicosomatici di un pensiero incapace di stare fermo e che finisce col logorare la sua salute e i suoi nervi.

Chiusi gli occhi e cercai di concentrarmi sul respiro. La nutria proveniva da una mia colpa. Sentivo, lo sentivo visceralmente, che proveniva da una mia colpa. Che in qualche modo era anche l’avatara di questa mia colpa. Ma di quale colpa si trattava? Da quale colpa che avevo perpetrato scaturiva la nutria?

Il Giorno della Nutria fin dal suo titolo è espressione autentica di un ricchissimo universo creativo. È un libro che costringe il lettore a restare incollato alla pagina, che commuove e fa ridere, che turba e spinge a riflettere. È, ancora, un libro dov’è presente in maniera prepotente il mondo contemporaneo: Il Foglio – dove Zandomeneghi scrive (sua la recensione a Il Grido di Funetta: “Funetta è magro e ha un bel volto, lo potresti facilmente identificare con Raskol’nikov”) – e Il Fatto Quotidiano, i lubrificanti Durex e la Tennent’s, il Gewürztraminer (ma anche il Morellino di Scansano e il Montecucco), le cartine Rizla, lo Xanax, il Prozac, il Limbitryl – “infiniti, fallimentari e svilenti farmaci per lo più neurologici (antiepilettici, miorilassanti, antineuropatici, antiposterpeticopatici) e psichiatrici (antidepressivi di ogni generazione, antipsicotici, stabilizzatori dell’umore) ” – la Liegi-Baston-Liegi, il Lidl e Il signore degli Anelli.

Ridevo, poi la mia testa che iniziava ad andare a briglia sciolta fece emergere un’immagine: il giovane Tondelli steso a terra che singhiozza con le interiora macerate dall’alcol, in mezzo alla pozza del sangue che gli sta uscendo dal culo. In realtà questa scena, che per qualche motivo ha messo radici nella mia immaginazione, è in parte una mia invenzione. Desiderai che Tondelli fosse lì con me, desiderai che fosse notte e che ci tenessimo mano nella mano sdraiati in silenzio sulla terrazza a guardare le stelle. Desiderai soprattutto che a manifestarsi nella mia giornata fosse stato Tondelli e non quel nefasto cadavere scorticato. Iniziai a compiangermi e mi commossi.

C’è Tondelli e, tra i tanti, il Bolaño de La letteratura nazista in America come anche il Rimbaud evocato da Ulises Lima e Arturo Belano, Saltykov-Ščedrin e Černyševskij, Schopenhauer e Hegel, Mancuso e Galimberti, Papini e Verri, Andreotti e Cossiga, Mircea Eliade e Gianni Minà. Ma la letteratura, la filosofia, le “cose cristiane al tempio di Eliogabalo Laccoprocto” sono solo la faccia illuminata di una scrittura capace di sporcarsi – “Avevo la bocca che sapeva di un cesso alla turca schizzato di merda in cui era stata buttata una palettata di cenere stantia della stufa a legna” – con ogni deiezione, con sangue, con sperma e che oscilla ebbra tra l’ideale e il baratro fisico della propria esistenza corporale.

Le sbornie solo apparentemente sono episodi distaccati l’uno dall’altro e totalmente autonomi, in verità tessono proditoriamente un loro occulto ordito di filamenti sotterranei che le collega, che le fa dialogare bisbigliando, che accenna sottovoce a un semiserio e inafferrabile labirinto di rimandi e di specchietti deformanti

C’è in Davide la fuga costante da un passato che scopriremo doloroso e da un presente che si rivelerà più drammatico delle peregrinazioni intellettuali con cui cerca di irretire – riuscendoci – il lettore.

Il giorno della Nutria è un caleidoscopio di emozioni, di riferimenti, di pensieri, d’idee, di frasi da sottolineare, di libri da cercare e leggere, di impressioni vivide che rimangono nella mente, di una penna affilata capace di distruggere un’idea, un pensiero, un autore con il lucido sarcasmo contenuto in due righe, di descrizioni precise, attenti e pungenti. Ma è anche troppo, tanto di tutto questo. Come se Zandomeneghi fosse bravo, molto bravo ma non così sicuro da non doverlo sottolineare in ogni pagina, in ogni rigo che ha scritto. Ma è un peccato veniale connaturato in fondo al suo stato di esordiente. La distanza tra un fuoco d’artificio e una stella luminosa non si misura in fondo nell’arco splendente di una sola notte ma sulla lunghezza del tempo che verrà.

 

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