Tutte le foto sono di Marilù Parisi al Serraglio (MI)
Quando un legame artistico funziona, lo si sente in ogni nota. C’è quel luccichio, quella scintilla, quel Twinkle twinkle che fonde le diversità senza affogarle. Non stupisce, quindi, che sia il titolo del terzo album di inediti di Ilaria Graziano e Francesco Forni, duo napoletano alt-folk che della loro sintonia ne hanno fatto una comfort zone di successo per dare voce alla propria urgenza artistica.
Con la loro musica, cambiano continenti e lingue, dal Canada alle più importanti scene europee, viaggiando dall’inglese all’italiano con parentesi francesi e non solo. E la loro fusione si rafforza. «Nessuno ci può allontanare/mano nella mano/per restare sempre uniti/e riuscire a non scappare», cantano in Sospesi. È un brano dell’ultimo lavoro, pubblicato il 16 marzo per Lamastrock e Goodfellas: un disco concettuale più che una raccolta di inediti,. «Che fosse un concept ce ne siamo accorti solo dopo averlo registrato. Siamo istintivi nella musica, non seguiamo la necessità di seguire le aspettative», sorride Ilaria. È in treno per recarsi a Milano per un concerto.Tra pochi giorni partiranno alla volta della Germania, poi Canada e Francia.
Twinkle twinkle è un lavoro nato nei 3 anni in tour in giro per il mondo che portate per intero sul palco, quasi per chiudere un cerchio. Una decisione originale, cosa vi ha spinto a farlo?
Ci siamo resi conto che è un viaggio a sé che non volevamo interrompere. Ci piaceva l’idea di mantenere questo filo che riesce a toccare corde anche molto intime. È un aspetto che però capisci solo dopo, nella fase creativa ed emotiva hai uno sguardo completamente diverso, immersivo. Poi ti fermi e capisci che c’è un legame molto forte che conduce da un brano all’altro. È un viaggio intimo nelle zone più oscure che ci attraversano e nella resilienza, anche nei momenti peggiori, di vedere sempre quella luce che indica la fine del tunnel. Da questo deriva il titolo Twinlkle twinkle.
Nel vostro lavoro è chiara la trasversalità, di generi e di culture. Avete in mente un ascoltatore ideale?
Quando scriviamo non facciamo mai entrare quello che gli altri si aspetterebbero. Sarebbe un’interferenza nel processo. Siamo convinti che non bisogna mai compiacere il pubblico ma sempre camminarci insieme e cercare di coinvolgerlo nella sua evoluzione artistica. Il nostro pubblico è eterogeneo, va dagli adolescenti fino ai 60 anni. Una varietà che è stata più evidente all’estero, dove i concerti non si fanno a notte inoltrata ma in orari più accessibili alle famiglie. Oltre all’età, sono per lo più persone che non seguono le tendenze. Insomma, nessun target ma arriviamo dove abbiamo la possibilità di essere.
In Italia questa possibilità c’è?
Qui funzioniamo molto grazie al passaparola, un metodo che va visto che gli appassionati aumentano. Probabilmente è una modalità che richiede più tempo per creare un pubblico grande ma è composto di persone che ci seguiranno per tutta la vita. E ce ne accorgiamo soprattutto quando, a fine concerto, le persone sentono il bisogno di venirci a raccontare come ci hanno conosciuto.
Siete lontani, quindi, dalla scena che sta dominando il Belpaese. Qual è l’idea che vi siete fatti guardandola dall’estero?
Che è un susseguirsi di tendenze e il resto non viene considerato, se non come diverso dal patrimonio del paese. Se noi all’estero siamo considerati artisti italiani che esportano la loro musica, in casa siamo coloro che stanno avendo successo prima all’estero. Il rovescio della medaglia è che la musica italiana che funziona ha difficoltà a uscire per delle sonorità e un sound meno esportabile.
Verrebbe quasi da pensare, vista anche la scelta di molti gruppi di restare o tornare alle canzoni in italiano, che si stia rinunciando al mercato estero. È così?
Non è una questione di lingua. Può avere importanza ma la realtà è che, almeno per quanto riguarda noi, le canzoni che hanno grande successo fuori sono quelle italiane. È una questione di linguaggio sonoro. Io non conoscevo inglese, francese o spagnolo quando sentivo Billie Holiday ma riuscivo a percepire tutto quello che ho scoperto solo successivamente, quando ho imparato la lingua. Già sapevo in qualche modo di cosa stesse parlando. Cogliere la musica come realtà, come linguaggio universale, può superare qualsiasi lingua. Più volte in Germania, in Francia o in altri posti, siamo rimasti colpiti quando, nonostante l’indecisione, sceglievamo di fare Rosso che manca di sera e vedevamo persone che piangevano pur non avendo capito alcuna parola. È l’approccio che si ha verso il fare musica che cambia: al momento in Italia si fa musica per l’Italia e l’indie fa musica per l’indie. Manca un approccio largo, salvo scelte motivate dal mercato. Per noi scrivere canzoni in lingua non è mai stata una scelta, solo frutto della necessità di esprimerci e di fare questo viaggio insieme.
Un viaggio che, come questo tour, è partito proprio da Napoli, la vostra terra ma anche la città che in questi giorni è stata dominata da Liberato. Com’è tornare e vedere, se c’è stato, questo cambiamento?
Liberato è un fenomeno. E credo che al di là di questi fenomeni che vivono un impatto mediatico triplicato e subiscono le regole del marketing, credo che Napoli non si sia mai fermata nella produzione di artisti. Ci sono tantissime realtà che funzionano. Ma questo serve per renderci conto che ci sono interazioni che cominciano ad avere un linguaggio diverso, quello dei social e del web che è entrato nelle nostre vite quotidiane. Diciamo che con il narcisismo che i social alimentano, tutti hanno una finestra da aprire e hanno la sensazione che il mondo li stia guardando, ma si tratta sempre del loro piccolo mondo. Insomma, c’è una grossa analisi da fare. Di conseguenza, però, si decide di chiudere i varchi per le altre cose: l’unica cosa che funziona è quello e tutti investono. Si investe sul condizionare le persone, ed è limitante. Non è così in Francia dove c’è la radio hip hop, quella jazz e noi da totali sconosciuti siamo andati nelle radio nazionali. Sono altri meccanismi di apertura culturale. Ma capisco che oggi siamo in una fase di mezzo: dobbiamo bilanciare il vecchio modo, quello che faceva girare tanti soldi nelle case discografiche con gli standard che sono cambiati.
Vista la freschezza dei vostri lavori e il riscontro positivo, sembrerebbe che avete capito come fare. Qual è il vostro segreto?
Forse seguire il nostro intuito. È diffusa la paura di fare qualcosa che non sia di tendenza ma il segreto è vedere oltre, ascoltare veramente se stessi e fare qualcosa solo perché senti la necessità di farla. Dopo gli anni di tour abbiamo percepito la voglia intensa di scrivere un nuovo disco e di registrare qualcosa che sarebbe stato diverso. Siamo maturati, e questo si esplicita nel camminare senza chiedersi cosa piace e cosa no. È questo il segreto, essere in sintonia con se stessi. E poi c’è molta fiducia nell’altro e stima reciproca, quindi se uno dei due non è convinto ne parliamo per far svanire i dubbi. Certo, è chiaro che ci vogliano tante altre cose, come il talento che da solo non è sufficiente, ma quando tutto questo c’è, lo capisci. E ti aprono le porte.
Ci sono porte ancora che, come sogni nel cassetto, aspettate che si aprano?
Sentiamo sempre la necessità di scambiare le nostre esperienze con altri artisti. Sicuramente ci sarà una versione dal vivo anche di questo disco in cui coinvolgeremo musicisti, perché abbiamo voglia di rivisitare i nostri brani e aprirli alle contaminazioni. Nel frattempo, in autunno uscirà il disco in digitale in tutto il mondo. Poi ci sono tante altre cose, sia idee che progetti, ma credo sia prematuro, diciamo solo che sarà un anno molto intenso. Da buona napoletana preferisco non dire altro.