A tu per tu con Guadalupe Nettel

Maternità. Violenza di genere. Sorellanza.
La figlia unica è tra le narrazioni che hanno riscosso maggiore successo nel 2020 e ha contribuito a consacrare Guadalupe Nettel nel panorama della grande letteratura contemporanea. Un romanzo che propone tre diversi modi di esprimere la propria femminilità, di scegliere il proprio destino attraverso le storie delle tre protagoniste. Il concetto stesso di famiglia ne esce capovolto.

Guadalupe Nettel si è affermata in Italia nel 2014 con il romanzo Il corpo in cui sono nata (Einaudi), a cui sono seguiti Quando finisce l’inverno (Einaudi 2016), Petali e altri racconti scomodi (La Nuova Frontiera) e Bestiario sentimentale (La Nuova Frontiera 2018). L’autrice messicana è stata tra le protagoniste della fiera della piccola e media editoria “Più libri più liberi” di Roma. L’abbiamo incontrata alla Nuvola di Fuksas prima della presentazione.


Che significa per te oggi essere in Italia, a una fiera di libri che l’anno scorso sarebbe stata impensabile?

L’Italia è un paese a cui sono molto legata. La prima volta che sono venuta avevo 12 anni. Ho studiato la lingua, ho sempre apprezzato la canzone italiana, il cinema. Non ho potuto presentare La figlia unica di persona, sono stata in streaming a Mantova, a Venezia. Internet sembrava diventato l’unico modo di viaggiare, di conoscere il mondo. Poter incontrare i lettori fisicamente è tutt’altra cosa.

Il tema della fiera di quest’anno è “la libertà”, un concetto che si misura in relazione alla recente esperienza del lockdown e serve quasi a esorcizzarla. Come hai vissuto quei mesi di chiusura umanamente e da scrittrice?

Ho terminato La figlia unica alla fine del lockdown. All’inizio lo vedevo come una possibilità, avrei potuto terminare di scrivere senza interruzioni. Poi però il lockdown si è prolungato e nessuno sapeva quanto sarebbe durato. Tutti i miei piani, i progetti erano stati stravolti, non avevo più certezze. Stavano cambiando pure le ragioni della mia scrittura, cercavo un senso senza trovarlo. Se il mondo può finire domani, che senso ha continuare a scrivere? Quest’incertezza ha influenzato la mia scrittura, la mia salute. Mi sentivo debole, ho sofferto di anemia fino a sfiorare la depressione. Sono contenta che lentamente stia tornando tutto alla normalità.

Esiste il destino, ma c’è anche il libero arbitrio, e consiste nel modo in cui prendiamo le cose che ci tocca vivere.
— La figlia unica

Foto dall’intervista con Guadalupe Nettel

Tra le scrittrici e gli scrittori italiani, contemporanei e del passato, quali hanno esercitato una maggiore influenza sulla tua scrittura e apprezzi maggiormente?

Sono molti. Ho grande ammirazione per Alda Merini, non a caso La figlia unica si apre con una sua citazione. E poi sicuramente Natalia Ginzburg. Tra i contemporanei i miei preferiti sono Andrea Bajani e Chiara Valerio.

E adesso che progetti hai per il futuro?

So che a fine febbraio uscirà per La Nuova Frontiera una nuova edizione de Il corpo in cui sono nata con la traduzione di Federica Niola. Dopo aver scritto due romanzi, sto tornando al racconto che è un genere che amo molto, che sento molto vicino. Il mio prossimo libro sarà una raccolta di racconti su persone che si sono allontanate dalla via, veri e propri “divagantes”.

Tornerai quindi al racconto. In Italia emerge la tendenza a non valorizzare appieno le forme brevi di scrittura, come il racconto, altrove invece stimato e apprezzato, anche al Nobel. È un ostacolo con cui fare i conti anche per te? Quanto incide questo pregiudizio sullo scrittore?

È una specie di militanza, una forma di fedeltà a un genere che ha una tradizione salda alle spalle. Penso ai racconti di Alice Munro, Borges. In America Latina questo legame è ancora più forte e i racconti riscuotono grande successo, se pensiamo ai libri di Samantha Schweblin, anche lei presente in fiera in questi giorni. Dipende molto dalla promozione: se l’editore crede in quel testo ed è di valore, anche il racconto può avere successo.

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