Nel mondo dell’editoria | Intervista a Paolo Zardi e Crocifisso Dentello

Paolo Zardi, padovano, classe ’70. Crocifisso Dentello, brianzolo, classe ’78. Sono i due autori con cui abbiamo avuto il piacere di fare quattro chiacchiere su narrativa, editoria e sul panorama socioculturale contemporaneo. Scrittori che tra loro non hanno molto in comune, ma che, con le loro risposte, ci aiutano a comprendere meglio il mondo editoriale, quello letterario e il legame che intercorre tra i due. Entrambi, infatti, nel corso della loro carriera hanno pubblicato con case editrici piccole e grandi, opportunità che ha dato loro la possibilità di vedere quali differenze ci siano tra i diversi modi di lavorare in campo editoriale. Un campo minato su cui è difficile orientarsi e che, se considerato nel vasto e intricato panorama sociale contemporaneo, parrebbe complicarsi ogni giorno di più.
Ecco cosa ci hanno detto.

Iniziamo parlando della letteratura. Della scrittura, del suo ruolo nella società contemporanea e del suo attraversamento trasversale lungo i periodi storici più caratterizzanti dell’epoca moderna..

Qual è la tua idea di narrativa? Pensi che la letteratura abbia un ruolo di svago o che vada oltre il mero intrattenimento?

Z: Sono convinto che la letteratura non possa essere ricondotta a una definizione univoca, senza lasciare fuori qualcosa. Che obiettivi in comune possono avere, ad esempio, l’Iliade di Omero e Glamorama di Ellis? O Il processo di Kafka e il Don Chisciotte di Cervantes? Penso che tutto sia iniziato con il desiderio, prettamente umano, di voler raccontare (e ascoltare) una storia; poi si è scoperto che, attraverso quella narrazione, era possibile fare anche dell’altro – inventare mondi che riflettessero quello in cui viviamo, esplorare i misteri dell’anima, indagare sulla natura dei sentimenti. Nonostante si tenda a negarlo, esiste una relazione inscindibile tra letteratura e intrattenimento, e sospetto che sia questa caratteristica peculiare a renderla così potente; ma le opere dei grandi non si sono mai limitate a offrire qualche ora di svago.

D: Confesso di detestare le speculazioni intellettuali e quindi dirò più semplicemente cosa ha rappresentato e rappresenta per me la letteratura: conoscere me stesso e gli altri. Tutti i libri, dai più impegnati ai più dozzinali, restituiscono la memoria di ciò che siamo stati e la consapevolezza di ciò che siamo dentro la narrazione e nell’atto della lettura.

Come credi che l’evoluzione, o involuzione, sociale e politica contemporanea – l’avvento dei populismi e il ritorno in auge della destra nazionalista, la demonizzazione del fenomeno migratorio e l’incremento del razzismo, l’esecrazione del mondo della cultura e la diffidenza per i valori liberali – si rispecchi nella letteratura? Le due vanno in parallelo?

Z: La letteratura parla sempre di ciò che accade, e però non parla mai esattamente di questo. Il contemporaneo in senso stretto è appannaggio del giornalismo, della sociologia, della politica. Chi scrive, invece, ragiona quasi sempre sub specie aeternitatis. I fatti contingenti sono interessanti solo se riflettono una qualche inclinazione naturale dell’uomo – una sua tara, ad esempio, o un suo afflato inestinguibile. Quanto sta succedendo in Europa e nel mondo è irrilevante, nella storia dell’umanità: si tratta di episodi che ci toccano da vicino per il semplice motivo che noi viviamo qui in questo preciso momento, ma Salvini, per fare nomi e cognomi, esiste da qualche anno, e nel giro di un decennio sarà solo un ricordo: è un accidente, un’aberrazione del tutto contingente, il risultato di forze locali e passeggere; se interessa, è solo perché la sua parabola rivela molto della natura umana, della sua debolezza, della sua innata tendenza a seguire, ipnotizzata, il ballonzolare dei testicoli del capobranco mentre questo procede verso il nulla: ne dobbiamo parlare come cittadini, come esseri umani, ma questi fatti precisi non sono di alcun interesse per la letteratura, se non per quanto raccontano di noi come homo sapiens. Scrivendo, si cerca l’universale attraverso il particolare. Ci si dovrebbe ispirare a quanto diceva Senofonte: scrivere di fatti che non accaddero mai ma sono sempre.

D: Spero proprio di no. A costo di attribuire una funzione pedagogica alla letteratura, voglio illudermi che essa sappia raccontare il nostro tempo non già assorbendo come propri i disvalori imperanti ma anzi mostrandoceli in tutta la loro empietà così da ritrovare le parole e i gesti per combatterli.

Adesso spostiamoci e trasferiamoci nel mondo dell’editoria, da molti definito una giungla, da tutti considerato una matassa difficile da sbrogliare.

Nel corso della tua carriera hai avuto l’occasione di pubblicare sia con una casa editrice – cosiddetta – minore, sia con una casa editrice – cosiddetta – maggiore. Qual è stato l’aspetto più significativo dell’essere passato da una casa editrice minore a una maggiore?

Z: Per quanto possibile, ho sempre cercato di mettere al centro del mio lavoro il “progetto”. Il giorno che ho conosciuto Francesco Coscioni e Angelo Biasella – presentavano la loro prima raccolta di racconti a Bologna, al Betty Books – ho scritto loro un messaggio, mentre tornavo a casa, dicendo che mi sarebbe molto piaciuto realizzare qualcosa con loro, e non necessariamente un mio libro (che allora non avevo scritto). Mi piaceva l’idea di condividere un cammino con loro. Dopo dieci anni, abbiamo pubblicato cinque libri, insieme, e nessuno di questi è nato per caso: ogni volta ci siamo sentiti, abbiamo parlato, ci siamo confrontati su quello che avevamo in mente, e una volta che avevamo in mano un testo, ci abbiamo lavorato insieme per arrivare al risultato che avevamo pensato. Anche La felicità esiste, il mio romanzo di esordio con Alet, è nato dalla strettissima collaborazione con Giulia Belloni, che io considero il mio nume tutelare, il mio angelo custode, in questo particolare “mondo dei libri”: tutte le decisioni che ho preso in questi anni sono sempre arrivate dopo un confronto con lei. E tutto questo solo per dire che la pubblicazione di un libro non è un atto che si ripete sempre uguale: è sempre l’esito di una collaborazione con persone che si stimano e per le quali si prova un reale interesse, umano e culturale. Il passaggio da una casa editrice piccola a una casa editrice più grande è semplicemente un altro “progetto”. Mi piaceva l’idea di confrontarmi con dinamiche diverse da quelle che avevo sperimentato fino a quel momento. Ho visto un modo diverso di lavorare, anche se poi la sostanza di fondo è la stessa… gli aspetti significativi sono stati diversi: è indubbio che la pubblicazione con Feltrinelli ha certificato (e lo dico con molta ironia) il mio status di scrittore, il che mi ha permesso di entrare in contatto con realtà editoriali che prima non potevo neppure avvicinare; e questo mi ha spinto a fare meglio, e di più, e con più convinzione. C’è poi l’aspetto della distribuzione: il mio libro era ovunque, e questo, per uno scrittore, è un aspetto non trascurabile. Di contro, c’è stata la sensazione di essere uno tra i tanti: Feltrinelli ha un catalogo ampio, con molte uscite, e il mio romanzo probabilmente non aveva le caratteristiche o le qualità per emergere. Credo che di aver capito come potrebbe sentirsi il capitano di una coraggiosa e intraprendente squadra di provincia quando arriva al Real Madrid e si trova a fare panchina per tutto l’anno.

D: Sarò brutale: il trattamento economico. La major paga tutto e con regolarità. Il piccolo editore arranca.

Com’è avvenuto il passaggio? Tramite un agente o in altro modo?

Z: Avevo pubblicato due romanzi brevi con Feltrinelli Zoom – un contatto che allora era stato favorito dall’amico Marco Drago. Quando poi ho completato un romanzo, ho chiesto a Daniele Pinna, che è il mio agente (non riesco mai a dire questa cosa senza sorridere), di provare a capire se Feltrinelli poteva essere interessata: ha presentato il libro, e dopo qualche mese mi hanno detto che lo volevano pubblicare. Nella loro scelta ha influito anche il fatto che nel corso degli anni precedenti avevo dimostrato di avere una certa continuità nella scrittura.

D: Sono approdato alla Nave di Teseo grazie a un articolo firmato da Paolo Di Paolo su Repubblica. L’articolo illustrava il fenomeno degli scrittori sui social network e mi dedicava un lungo passaggio. Elisabetta Sgarbi legge il pezzo, recupera informazioni su di me, legge il mio esordio e mi convoca in una mattina di agosto del 2016 per propormi di pubblicare con lei il secondo romanzo.

Dopo questo passaggio, pensi che la tua scrittura e il tuo modo di lavorare si siano modificati? Avverti un cambiamento nel modo di porti davanti alla pagina bianca?

Z: Il primo aspetto da sottolineare è che non c’è stato alcun “passaggio”: ho pubblicato con Feltrinelli, ma non sono, tecnicamente, un loro autore – non ci sono contratti di esclusiva. E lo dimostra il fatto che ora sono uscito con una raccolta di racconti con Neo, e che a ottobre, se va tutto bene, uscirà un romanzo per Chiarelettere, nella collana “Altrove” curata da Michele Vaccari. Come dicevo, il mio interesse è sempre verso il “progetto”, e ogni libro ha una storia che evolve a modo suo. Ma il mio modo di lavorare non è cambiato. Non sento alcun tipo di pressione da parte di nessuno. Scrivo quello che mi piace scrivere, cercando di seguire un percorso che ho immaginato. Ogni libro risponde a esigenze diverse: è un tassello che cerco di aggiungere a un disegno un po’ più ampio, e che ho abbastanza chiaro. Il vantaggio di non vivere di scrittura, di non dipendere economicamente da quello che scrivo, è che posso permettermi anche fiaschi e mancate pubblicazioni – in questo senso, posso dire, un po’ pomposamente, di poter giocare a fare l’artista.

D: Nessun cambiamento. Del resto ho un editore, Elisabetta Sgarbi, che rispetta totalmente la libertà creativa dei suoi autori. Mi sento molto fortunato a lavorare con lei.

Si dice che le grandi case editrici si muovano in funzione delle logiche di mercato e che le piccole e le medie si concentrino di più sulla qualità. Pensi sia vero?

Z: Gli obiettivi delle case editrici, piccole o grandi che siano, sono sempre gli stessi: cercare di vendere buoni libri; e dal momento che nessuno ha ancora trovato la formula che garantisce il successo di un libro, tutti vanno per tentativi. Nel mio caso, non credo che dietro la pubblicazione di Tutto male finché dura ci fosse l’idea di produrre un bestseller: era un libro anomalo, non accomodante, lontano dai generi che vendono di più. È piaciuto, e hanno deciso di pubblicarlo senza domandarsi quanto avrebbe venduto, con un approccio che ho sentito coraggioso e spassionato. Non metto in dubbio che in taluni casi i grandi editori puntino esclusivamente alle vendite, come accade quando vengono pubblicati libri scritti da personaggi famosi; ma se con quelle entrate, poi riescono a non preoccuparsi delle vendite degli altri autori meno blasonati, non posso che essere contento di questo. I piccoli editori spesso sono consapevoli del fatto che fare concorrenza alla major con libri di “cassetta” non avrebbe senso; sanno che i lettori, quando scelgono un libro di una casa editrice indipendente, cercano qualcosa di diverso, e quindi, coerentemente, cercano di offrire una proposta di qualità; e a ben vedere, anche questa è logica di mercato.

D: Penso sia una verità parziale. Certamente il piccolo e medio editore può azzardare testi più coraggiosi ma non è detto siano di qualità così come il grande editore può perseguire logiche di mercato preservando la qualità di un testo. Ciascun romanzo fa caso a sé.

Soffermiamoci sulle opere.

Zardi

Paolo Zardi

La società contemporanea, nelle sue sfaccettature più diverse e complesse, è al centro della tua letteratura. Ma spesso quella che viene rappresentata è un’umanità degradata. È così che vedi i tempi moderni?

Non credo che i miei libri parlino del presente in senso stretto: molto banalmente, ambiento le mie storie nel presente, e qui in Italia, perché questo è l’unico mondo che conosco. Il degrado, ad esempio, si è presentato in molti altri periodi nella storia dell’uomo, e quasi sempre in modo più drammatico rispetto al ventunesimo secolo. Il mio interesse non è verso la società contemporanea, ma verso gli effetti che questa particolare società produce sugli esseri umani. E non sono pessimista, circa il futuro del mondo – non più di quanto lo sarei stato se fossi nato nell’undicesimo secolo. Siamo naturalmente portati verso il disastro, e passiamo la maggior parte del tempo ad arrabattarci per evitarlo, o quanto meno per consegnarlo alle generazioni future, sperando che trovino una soluzione. Ci estingueremo nel giro di cento anni o nel prossimo secolo scopriremo come diventare eterni: sono due opzioni altrettanto plausibili.

Penso a XXI secolo e a Tutto male finché dura. I due protagonisti, anche se circondati da affetti, sembrano molto soli. La solitudine è una condizione di natura, secondo te?

È un aspetto sul quale ho riflettuto più di qualche volta: i miei personaggi – tutti – non hanno mai amici. Non credo che questo rifletta una mia qualche convinzione “sociale”: probabilmente, si tratta del particolare modo che ho trovato per raccontare storie di uomini messi alla prova. Le persone rifuggono dalla solitudine – e l’esplosione del fenomeno dei social, che talvolta propongono un surrogato dell’amicizia, è la prova più evidente di questo.

Sei stato definito più volte uno dei più grandi scrittori di racconti in Italia. Il genere ti è congeniale? Si dice che in Italia non vendano, qual è la ragione, secondo te?

Non credo che i racconti siano un mondo a sé: sono storie brevi, e questo aspetto è l’unico criterio che è possibile applicare per distinguerli dai romanzi. Da questo, discende tutto il resto – lo stile, il tipo di storie che è possibile raccontare, l’umanità che ne viene fuori. Il paragone che si usa più spesso è quello della gara dei cento metri e della maratona; ho usato spesso questa metafora, che evidenzia le differenze, ma non viene mai messo in luce il fatto che si tratta pur sempre di corsa. Per quanto mi riguarda, ci sono idee che possono essere raccontate in poche pagine e altre che richiedono una storia molto più complessa; nel primo caso scrivo un racconto, nel secondo un romanzo. Servono qualità diverse, e non è detto che un autore che le abbia tutte. Nel mio caso, mi viene spesso detto che i miei racconti sono migliori dei miei romanzi: convivo serenamente con questo piccolo peso. Sul fatto che non vendano, io posso solo constatare che il libro del catalogo Neo che ha avuto più ristampe è una raccolta di racconti, seguito da una raccolta di poesie. Può bastare?

In Tutto male finché dura ti sei spostato verso il grottesco. È un cambiamento permanente?

Mia nonna amava fare a maglia, e aveva un certo talento. In ogni sua produzione introduceva una tecnica che fino a quel momento non aveva mai usato; se il risultato non la convinceva, provava con quello successivo fino a quando non raggiungeva il risultato sperato; quindi, passava ad altro. Nel mio caso, avevo una voce ruvida e irriverente che desideravo usare. L’ho fatto per due anni ed è stato molto divertente, ma quando ho scritto la parola “fine”, mi sono detto che non avrei mai scritto niente di simile per il resto della vita (e infatti mi sono gettato a capofitto sulla scrittura di un romanzo breve dove ci sono solo persone piene di buoni sentimenti, una cosa che forse non verrà mai pubblicata, ma che per me era la risposta necessaria). In generale, comunque, ogni libro deve avere una personalità unica e, se possibile, irripetibile. Come dice Andrea Tarabbia, arriva il momento in cui un autore diventa consapevole del fatto che non sta scrivendo libri, ma, piuttosto, disegnando una costellazione nel cielo, con stelle sempre diverse; e credo che per me quel momento sia arrivato.

Dentello

Crocifisso Dentello

Hai uno stile molto ricercato e, da quel che so, hai studiato letteratura da autodidatta. Come hai fatto a svilupparlo, per così dire? Ci hai lavorato su o è venuto fuori naturalmente?

Se il mio stile riflette una supposta ricercatezza (dico supposta perché penso che molti lettori – plagiati dal traduttese standard di tante novità d’oltreoceano – ignorando la prosa del nostro secondo ‘900 scambiano la mia sintassi per barocchismo), è perché negli anni della mia formazione di autodidatta ho letto e riletto fino allo sfinimento i narratori e i poeti di lingua italiana e senza volerlo ne ho mutuato gli elementi distintivi (questo non significa che io sia riuscito a sfiorare il nitore e il valore del loro dettato!).

In La vita sconosciuta, vicende coniugali e politico-sociali si intrecciano. Il tuo protagonista pare vivere come se non sentisse di appartenere al mondo in cui vive e fosse costretto a mentire per essere accettato. Pensi che sia una condizione comune, questa?

Siamo tutti, sia pure con responsabilità differenti, protagonisti nella relazione con l’altro di una perenne dissimulazione. Non può esistere una trasparenza assoluta, non fosse altro che nessuno può dire anzitutto di conoscere in profondità se stesso. Mi sovviene, per spiegare cosa mi ha mosso ne La vita sconosciuta una bella riflessione pronunciata da Javier Marias che cerco di sintetizzare all’ingrosso: come possiamo dirci sicuri della vita dei nostri genitori, dei nostri figli, dei nostri partner? E non soltanto perché ignoriamo come agiscono quando non sono in nostra compagnia ma perché ignoriamo la loro vita “prima di noi”. Un esempio: un figlio cosa sa davvero della vita del padre e della madre prima che nascesse? Può raccogliere la testimonianza dei genitori ma non potrà mai verificarne l’attendibilità.

In Finché dura la colpa, Domenico ha un rapporto molto intenso con la letteratura e i libri. C’è qualcosa di autobiografico?

Sì, certo. La mia vita sociale è sempre stata ridottissima, tutto a vantaggio di una lettura voracissima e totalizzante. Posso dire senza pudore che ho visto la mia vita scorrermi accanto mentre non facevo altro che leggere.

Il sesso è decisamente più presente nel tuo secondo romanzo, ma a tratti sembra quasi assumere un’accezione negativa. È così?

Chi ha letto il romanzo alla fine comprende perché Ernesto, il protagonista, rinnova a ogni atto di sodomia quasi un rito di espiazione. La sua iniziazione omosessuale coincide infatti con la morte da lui propiziata di un compagno di lotta armata negli anni ’70. Per lui il sesso e la morte sono indistinguibili.

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