Lawrence Ferlinghetti: come essere beat e arrivare ai cento anni

Nel 1956 l’editore della City Lights Books Lawrence Ferlinghetti pubblicò Howl and Other Poems – sapeva che probabilmente sarebbe stato uno schiaffo in faccia al buonsenso comune, con quelle menti migliori di un’intera generazione distrutte dalla pazzia che si trascinavano tra droghe, visioni poetiche, e canti di libertà sessuale. Eppure anche se per quella pubblicazione dovette subire un arresto e un processo, per uno come Ferlinghetti (che credeva nell’assoluta libertà delle parole) ne valeva la pena. In Howl non era impresso solamente l’urlo feroce di Allen Ginsberg, ma quello di un’intera generazione che scalcinava all’inseguimento del suo eroe infetto Neal Cassady, che si perdeva in improvvisazioni e ascolti jazz, che liberava le parole da tutte le formule stanche e le convenzioni di un’epoca ancora indorata da un certo manierismo. Avevamo bisogno di quel grido malato, avevamo bisogno che quelle parole circolassero, che potessero arrivare diritte ad agitare i cervelli e le visioni di nuovi poeti. Se tanto spesso ci troviamo qui a cianciare ancora di beat generation d’altronde un motivo ci sarà: quel movimento di menti è riuscito a parlare non solo alla propria epoca ma anche a quelle che sono venute dopo – e non ci sorprende che persino cantastorie come Bob Dylan e Patti Smith ne siano stati cicatrizzati.

Lawrence Ferlinghetti è l’ultimo sopravvissuto di quella generazione. Persino adesso a cento anni tondi non smette di credere nella poesia, non che ci sia da sorprendersi dell’uomo che ha scritto Poesia come arte che insorge (“If you would be a poet, create works capable of answering the challenge of apocalyptic times, even if this means sounding apocalyptic“). E quest’anno è in arrivo anche l’autobiografia di Little Boy, in fondo dentro un intero secolo di storie da raccontare ce ne sono. Quella libreria e casa editrice City Lights per esempio, che dal 1953 trovate a San Francisco, e che nel tempo non ha mai smesso di curiosare tra le nuove voci americane.

Howl non fu la sola intuizione felice di Lawrence Ferlinghetti: nel 1964 escono i Lunch Poems di Frank O’Hara, un’altra di quelle copertine iconiche della serie The Pocket Poets. Questa volta siamo davanti a qualcosa di diverso, O’Hara non è certamente un’anima irrequieta come quelle beat, è un cantore di piccole cose che riesce a tirare fuori versi da una bevuta di coca cola. Tanto che una sera un Kerouac ubriaco non mancherà di dirgli che stesse rovinando la poesia americana; lui per tutta risposta non si scomporrà, e risponderà: è molto più di quanto non abbia fatto tu.


I poeti, insomma, cercano altri poeti, e così Ferlinghetti per tutta la vita non ha fatto altro che circondarsene, ispirarli e lasciarsene ispirare. In un certo senso ha dato vita a una comunità e l’ha animata. Basterebbe perdersi per un attimo nella lettura di quella che forse è una delle sue poesie più famose per penetrare con un tuffo dentro quello stile visionario. In Pietà per la nazione (alla maniera di Kahlil Gibran) riesce a sbatterci in faccia quella tremenda verità che bisogna avere: pietà per la nazione che non conosce / nessun’altra lingua se non la propria / nessun’altra cultura se non la propria. Umanista, anti-militarista, influenzato dal buddismo e le filosofie orientali, Ferlinghetti è terribilmente consapevole di essere americano, quindi statunitense, quindi di essere parte di quella nazione americana che pretende di essere l’intera America. E con i suoi versi non perde mai l’occasione di provocarci sull’essere americani, come quando ha recentemente dedicato a Trump dei versi che giocano con la rievocazione del cavallo di Troia e Omero.

Abbiamo a che fare con una figura che è già leggenda prima ancora di averci lasciato, e anche per questo ci piace l’idea di onorarlo da vivo. L’ultima raccolta di suoi versi che trovate nelle librerie italiane (anche in occasione di questo speciale centenario) è uscita per Sur e si chiama Scoppi urla risate (nell’introduzione Marco Cassini ci fa notare che il titolo è anche l’acronimo della casa editrice). E che bellezza perdersi in questa raccolta. «Padre nostro che fai arte in cielo / sia scarnificato il tuo nome»: si apre con i versi di The Last Lord’s Prayer questo tuffo roboante nel mondo ferlinghettiano, e subito viene in mente ancora una volta quell’urlo – rivolto al padre affinché scendesse in terra e vagasse come tutti i beat in mezzo e per le strade. Sia scarnificato quel nome del padre che ancora invochiamo, «a meno che non cambino le cose». Ma come potrebbero mai cambiare queste cose, davanti all’evidenza che gli americani siano i nuovi imperatori romani che stanno conquistando il mondo a iniezioni di capitalismo?

Ah dolci le mattine
in cui sull’amore splende il sole
(Teatro Magico)

Ferlinghetti è il nostro nonno beat che ci avvisa che stiamo tutti per schiantarci. Tra estasi e tragicommedie allora sarà l’intera America a parlare e cantare attraverso la voce del poeta: lo accompagneremo a sedersi sotto i castagni con Samuel Beckett, incontreremo Rimbaud, Withman e un Club Med, cercheremo la nostra isola al riparo da tutto, e arriveremo a far parlare quello che più conta — la voce umana che solo nella poesia trova pace. Per un attimo si illumina, poi ci dice arrivederci, in alcuni casi scappa via con le sue illuminazioni. Non sarà forse un caso se quella casa editrice libreria si chiamava luminosamente City Lights. E allora grazie Lawrence Ferlinghetti, per tutte le parole di questi cento anni. E per quelle che verranno, perché no — ci piacerebbe proprio conoscere l’urlo post-centenario.

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