L’epica degli ultimi | Cummeddia di Cesare Basile

Viremu quantu è russu u sangu ro jarrusu / chi russu è / ri cchi culuri / stu sangu ‘mprastiatu / Molina dimmi quant’è russu u sangu ro sgaggiatu?

Ci sono dischi che – forse, finanche loro malgrado – ruotano intorno a un brano dotato di una forza tale da diventarne manifesto e ragione d’essere. È quello che capita con il primo singolo scelto per Cummeddia, decimo lavoro in studio del cantautore catanese Cesare Basile; L’Arvulu Rossu è una ballata che non si smetterebbe mai di ascoltare, che quasi inchioda il disco all’inizio (è la seconda traccia) costringendo l’ascoltatore a un loop infinito. È la storia atroce – raccontata in prima persona – della persecuzione messa in atto dal questore catanese Alfonso Molina contro gli jarrusi, gli omosessuali siciliani, sotto il regime fascista, soprattutto dalla notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1939:

«Li vanno a prendere sul posto di lavoro, a casa anche a letto. La polizia agisce contemporaneamente in molti punti diversi della città. L’ideale sarebbe catturarli tutti insieme nello stesso luogo […] Un gran viavai, polizia, carabinieri, e tanti arrusi e masculi che vengono fatti uscire spinti nei camioncini della questura e portati via».

[Gianfranco Goretti, Tommaso Giartosio, La Città e l’Isola, Donzelli Editore]

Una storia minuta – tenuta nascosta dalle grandi tragedie del novecento e dal peso della Storia – che Basile eleva attraverso la poesia di una lingua, la sua – quella di un’isola e di un popolo – ricca d’immaginazione e colori. Una lingua ora dura, ora dolce che batte aspra sulla lingua di Basile, che stride tra i suoi denti, che si tende alta e sporca a raccontare – prima ancora che con le parole, con i toni, con le sfumature, con la rabbia – la vergogna della deportazione, la ferita dello scherno, il dolore dell’odio. L’Arvulu Rossu è un affresco straordinario che, sorretto da un ritmo che sa di danze popolari, di tammorre, di chitarre all’ombra di un bar con un bicchiere di vino rosso sul tavolino, di processioni e canti antichi, ci catapulta tra le strade della meravigliosa città ai piedi dell’Etna – ‘nfacci a stu gran mari – e ci sembra di ascoltare l’andare e venire delle onde, il sapore acre della salsedine. L’Arvolu Rossu è la sfida a una damnatio memoriae: il grande albero del titolo, il luogo dove s’incontravano gli omosessuali di Catania – dice che un tempo ha fatto frutto traviato / che frutto è / cuore di strada / amore calpestato – erto a simbolo, da una parte: del male, della devianza, del contagio; dall’altra: della libertà, del diritto all’amore contro la violenza dello Stato nella vita dei suoi cittadini – gli hanno fatto una barca di carta bollata / dall’altra parte del mare.

Ed è un album bellissimo, Cummeddia (su etichetta Urtovox), ricco di simboli a partire dalla bellissima copertina di Monica Saso che raffigura la cometa del titolo: «Il passaggio di una cometa è segno infausto, presagio di sventure pubbliche, monito divino, annuncio di peste – racconta Basile – La peste stravolge le relazioni umane e determina un nuovo ordine basato sul sospetto, l’accusa, il controllo, la definizione di zone e confini invalicabili. L’ordine è lo stato d’assedio, l’emergenza continua in cui la sospensione delle libertà viene presentata come il prezzo necessario per la sopravvivenza della società.» Un disco che si pone a compimento del lavoro iniziato nel 2015 con Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più e proseguito due anni dopo con U fujutu su nesci chi fa? e che qui sembra aver trovato una direzione che concentra la messa a fuoco su un suono più omogeneo e compatto, ennesimo tassello di un percorso unico e personale per un musicista e cantautore partito dalle esperienze più vicine al rock alternativo di fine anni ottanta (Candida Lilith, Quartered Shadows) e che, messosi sulle tracce del blues del Delta – tra Robert Johnson e Skip James, tra Charlie Patton e Blind Lemon Jefferson – ha finito per trovarli tra le radici della sua terra.

Quelli che erano primi ora cosa sono / ora che lo schifo fa terremoto / i peggiori comandano le feste / la peste ha fatto pustola dentro le teste

Dopo Mala la Terra – che arriva da lontano, coi sintetizzatori a disegnare nell’aria un suono di attesa e solitudine fino all’ingresso delle corde pizzicate, della band al completo e del coro ad anticipare l’ingresso della voce di Basile – e, appunto, L’Arvulu Rossu, tocca a E Sugnu Talianu, il brano più esplicito del disco – non so come non mi parte la testa / pensando al presente e al passato / vedo un pugno di persone fare festa / vedo a tanti altri che stanno male – costruito su un ritmo percussivo con la chitarra a disegnare geroglifici nell’aria calda e che tanto deve alla musica Tuareg. Non si distacca dalla stessa atmosfera la successiva La Curannera (La lavandaia) che mescola la Sicilia con i Tinariwen e i Terakaft come nella successiva filastrocca di Sette Vinniri Zuppiddi (Sette veneri zoppe).

Li campani su sunati /ppi la naca ri l’annijati (le campane sono suonate / per la culla degli annegati)

Dopo le note sub-sahariane ci pensano due brani a recuperare l’energia e l’oscura tessitura dietro la trama de L’Arvulu Rossu. Tocca prima a La Naca ri l’Anniati (La culla degli annegati), una brevissima ninna nanna che elabora suoni da musica antica e barocca e che lega l’attualità ancora una volta alla dimensione favolistica. E, soprattutto, a Chiurma Limusinanti (Ciurma elemosinante) tratta liberamente da La sfida di Henry Longfellow ne Il Popolo dell’abisso di Jack London.

Carni smunciuti e afflitti / s’affacciunu a li casi / i manu sdisiccati / ricoccghiunu muddichi / ‘nte casi c’è la luci / la vita è custumata / sta messi r’abbunnanza / sa unn’è ca fu arrubbata / l’esercitu ra fami / chiurma limusinanti / s’affudda a li canceddi / l’armata re pizzenti

Chiurma Limusinanti deve tanto alle radici popolari – e dunque in maniera intrinsecamente “folk” – di tanti Sud del mondo, impregnata come uno straccio per lavare a terra di melodie mediterranee con il suo ritmo trascinante, sorta di Cattiva Strada di deandreaiana memoria, di processione sghemba e blasfema, che sembra portare con sé la polvere e la terra secca di un intero meridione ed echi lontani di deserti di terra santa sospesa tra la spettacolarizzazione dei lebbrosi di un Jesus Christ Superstar e il suono travolgente delle armonie africane. La voce di Basile si fa qui quasi maschera necessaria per raccontare storie di ultimi ed emarginati, dei sopraffatti, dei reietti di una società che – ieri come oggi – non accetta diversità di sorta rispetto a uno schema uniforme prefissato e ipocritamente di facciata, privo di contenuti.

C’è sempre un’ora in cui / l’uomo si scopre essere vile / di quest’ora ho paura / e non di quello che si vede / dove sei finita / e come ci siamo finiti / in questo esilio / regno di terrore?

La Cummeddia, brano che dà titolo al disco, è una serenata che sembra voler suggerire l’amore come sola possibile strada in questi tempi oscuri e, impreziosita dal violino di Rodrigo D’Erasmo, dà l’avvio alla parte conclusiva del disco in cui la meravigliosa band a suo supporto – oltre allo stesso Basile (voce, chitarre, percussioni, djeli ‘ngoni, sintetizzatori), Massimo Ferrarotto (percussioni), Sara Ardizzoni (chitarre), Vera Di Lecce (voce, percussioni), Luca Recchia (basso), Hugo Race (tastiere), Gino Robair (percussioni, elettronica), Alfio Antico (tamburi a cornice, voce) – abbandona i ritmi travolgenti della prima parte per una proposta più crepuscolare che non rinuncia ancora alle atmosfere maliane.

Chitarra Rispittusa è animata da atmosfere suadenti e notturne che sembrano unire sotto un cielo stellato ancora una volta Catania con l’orizzonte illuminato dai bagliori roventi dell’Etna e terre lontane su cui cala un vento freddo. Cchi voli riri? (Che vuol dire?) è un blues rallentato dalla chitarra dell’ex Bad Seeds Hugo Race con un testo straniante in spoken word – onirica metafora apocalittica da brividi di ogni possibile follia umana – mentre ancora D’Erasmo disegna sullo sfondo suoni e stridii.

E popolazioni intere si sono infettate e hanno fatto cose nere / e ognuno pensava alla propria ragione /[…] le campane suonavano a chiamata / ma nessuno sapeva chi chiamava / e chi era chiamato

A chiudere il disco ci pensa il glockenspiel di Mina lu ventu (Soffia il vento) che al violino di Rodrigo D’Erasmo affianca anche la lapsteel box del sempre bravissimo Roberto Angelini.

Cummeddia è un disco importante, fedele all’idea di Camus del «diventare sé stessi», tassello di un percorso anarchico e libertario di cui da molti anni Basile si è fatto carico e di cui è diventato interprete ed esempio. È un lavoro che non spreca suoni o sillabe dove ogni cosa appare necessaria, dove l’impegno civile viene trasfigurato attraverso la bellezza dell’arte, dove la passione e la coerenza sono palpabili tanto nei momenti di grande furia come in quelli in cui il lirismo si fa più languido, sempre riflesso di uno sguardo lucidissimo, ora rivoltoso, ora più pacato. Cummeddia è la sintesi perfetta di un mondo arcaico nei suoni come nelle atmosfere che Basile, con i colori della sua tavolozza umana ed espressiva, sa tingere con tensioni di assoluta contemporaneità.

Disco di canzoni non tutelate dalla S.I.A.E. né da nessuna altra società di collecting italiana o straniera, Cummeddia è anche un tour che prenderà il via mercoledì 16 Ottobre dal Teatro Coppola di Catania e, dopo aver attraversato l’Italia (tra le altre Cosenza, Crotone, Napoli, Pescara, Pisa, Neive), si concluderà il 10 novembre al Mon amì di Montichiari. Tour nel quale Basile sarà accompagnato, come negli ultimi anni, dal collettivo aperto de I Caminanti in cui si pratica «l’attitudine di musicista – prima ancora che di particolare strumentista – alla libertà» – e che a questo giro sarà formato da Massimo Ferrarotto alle percussioni, Sara Ardizzoni (Dagger Moth; sul palco con I Massimo Volume nello splendido tour de Il Nuotatore) alle chitarre elettriche, Vera Di Lecce al synth,  percussioni e voce e Alice Ferrara alle percussioni, synth, voce e cori – e che consentirà di tastare il polso vivo di un progetto musicale di uomini e donne in mezzo ad altri uomini e ad altre donne a ricordare il potere della musica, la sua funzione all’interno della società civile, la sua ambizione e lo spirito quasi sciamanico di un grande, grandissimo cantautore.

 

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