Letteratura e realtà | Intervista a Teresa Ciabatti

Ho sempre pensato che una delle tante differenze tra la letteratura femminile e quella maschile risieda nella capacità delle narratrici, unica e fondamentale, di colpirti nel modo e nel punto più inaspettato. Gli uomini ti danno un pugno in piena faccia, le donne ti accoltellano a un fianco. È un aspetto che trovo sorprendente, una facoltà potentissima e dall’efficacia sicura. Certo, una generalizzazione di tale portata sarebbe tanto ardita quanto indubbiamente erronea, ma si tratta di sicuro di una peculiarità che ho riscontrato, e con estremo piacere, più volte. Il primo nome che mi viene in mente, a tal proposito, è quello di Teresa Ciabatti. Scrittrice eccezionale, narratrice di grande spessore emotivo, donna e intellettuale dal piglio impressionante. Con La più amata, con cui è arrivata in finale al Premio Strega, si è fatta conoscere dal grande pubblico e oggi, in libreria con Matrigna, è tornata alla ribalta con un romanzo bellissimo, profondo e molto toccante. La Ciabatti riesce a scavare nei suoi personaggi con forza bruta e allo stesso tempo con delicatezza magistrale, regala un mondo in cui ognuno di noi è chiamato a vivere. Una penna sopraffina, una donna di grande cultura. L’abbiamo incontrata al Salone del libro di Torino e abbiamo scambiato quattro chiacchiere su letteratura, società e politica. Ecco cosa ci ha detto.

La più amata di Teresa Ciabatti

Cominciamo dal principio, dalla narrativa in senso ampio. Nella situazione socio-politica contemporanea, nell’Italia di oggi, per te cosa significa fare letteratura?

La letteratura rispetto a molti altri mezzi di comunicazione non ha bisogno di un racconto che sia schematico, semplificato o che vada per contrapposizioni come avviene, ad esempio, con la televisione. Lì è importante la divisione tra bene e male, buoni e cattivi, per intenderci. La letteratura invece si può permettere di stare più vicina alla realtà, alla vita vera, e di restituire le sfumature e le ambiguità del quotidiano. Ecco, la letteratura questo può farlo, rendere lo spazio di contaminazione come una forma di denuncia: in un certo senso serve a responsabilizzare tutti. Se c’è Salvini al governo in qualche modo ce lo abbiamo portato tutti, e in qualche modo dobbiamo riflettere su questo fatto. La letteratura serve anche a questo.

E la letteratura intimistica? È importante ancora oggi?

Diciamo più che intimistica una letteratura che attraverso diversi piani può riflettere sul presente, quella sicuramente sì. Come scrittrice non affronto temi politici in maniera diretta, mi piace molto indagare la famiglia e ciò che faccio è farmi carico dell’ombra, della cattiveria, del male. Cerco di analizzarlo da dentro, non di allontanarlo. Il rischio di questo tipo di letteratura è l’equivoco, il fraintendimento che a parlare sia l’autrice stessa. Questo è avvenuto con La più amata molto più che con Matrigna, il mio ultimo romanzo. Il rischio è che la gente pensi che possa essere davvero io quella persona. Quell’essere umano così basso che si dispera per la perdita della piscina, che ha pensieri alle volte molto stupidi. Mentre in realtà ho fatto dapprima uno sforzo atto ad analizzare me stessa, poi un’elaborazione. Se dovessi raccontare la mia vita così com’è non ci sarebbe molto da dire. Serve l’alterazione, la costruzione di un personaggio. Insomma, mi sveglio la mattina alle sette, scrivo, non esco di casa, accompagno mia figlia a scuola, la vado a riprendere e vado a dormire alle otto e mezza. Nessuno potrebbe leggere una roba del genere. Non è raccontabile! Dunque ho creato un personaggio, ma è venuto fuori l’equivoco per cui la Teresa del mio romanzo è stata scambiata per la Teresa della vita reale.

Scostiamoci per un attimo dalla mera narrativa. Come credi che si rifletta questa situazione sociopolitica di cui abbiamo fatto cenno sulla letteratura? Penso al fenomeno migratorio e ai morti in mare, all’avvento dei populismi in tutta Europa e alla crisi economica che continua a pendere sulla testa di tutti come una spada di Damocle. Questi accadimenti di portata storica enorme trovano posto nelle pagine dei narratori contemporanei?

Sì, certo. Non solo gli scrittori contemporanei stanno raccontando il nostro tempo, ma alcuni lo fanno in modo diretto, affrontando la situazione di petto. Saviano lo ha sempre fatto, chiaramente, ed è uscito adesso un libro fantastico di fotografie, In mare non esistono taxi: potentissimo. Qui fa qualcosa di molto importante, diminuisce le parole a favore dell’immagine. Una scelto dirompente. Voglio dire: certe immagini non hanno bisogno di tante parole, si ha un’efficacia diversa. Dunque sì, gli scrittori affrontano la contemporaneità. Michela Murgia e Sandro Veronesi, ad esempio, raccontano il nostro presente continuamente. Autori in cui mi sento assolutamente rappresentata, tra le voci più autorevoli in questo momento. Loro chiaramente sono il livello massimo, ma poi ce ne sono tantissimi altri che lo fanno.

Pensi che ci sia diffidenza verso il mondo della cultura? Letteratura e società sono intrecciate? I romanzieri cercano ancora di investigare la società e allo stesso tempo la società cerca ancora di rifugiarsi nella letteratura come poteva avvenire negli anni sessanta?

Secondo me gli scrittori sono molto a contatto con la società, cosa che tra l’altro credo che sia anche un dovere dello scrittore. Apprezzo molto i romanzieri che sanno testimoniare il proprio tempo. Poi, è chiaro, ci possono essere racconti che sembrano lontanissimi dal presente ma che in effetti lo stanno raccontando. Si può fare anche attraverso lo stile, attraverso la forma. E in generale trovo che i nostri scrittori siano assolutamente molto contemporanei e consapevoli. La cultura vista come un rifugio? Quello no, non credo. Credo che lo sia solo per pochi, purtroppo. Anche se in effetti non so quanto sia giusto considerare la cultura come un rifugio. Se lo fai, la vedi come una scappatoia dalla realtà, qualcosa di distante dalla politica e dalla società, come se non possa avere un’azione o un ricasco sul reale. Il rifugio è l’evasione totale, l’evasione pura. La letteratura potrebbe essere invece un modo di modellarsi alla realtà, questo sì. Un’arma per comprenderla meglio. Credo però che sia estremamente importante che ci siano scrittori come Saviano e Murgia, che poi, tra l’altro, vendono tanto e questa è una fortuna. Hanno una grande risposta, riescono a comunicare e ad essere dei punti di riferimento importanti.

Questa politica urlata degli ultimi mesi, a proposito degli scrittori di cui abbiamo appena parlato, cercava un nemico e l’ha trovato in Murgia, Saviano, Lerner, Fazio e molti altri. Perché questa demonizzazione di scrittori e giornalisti? Solo perché prendono la situazione per i capelli o serviva semplicemente qualcuno da identificare come nemico?

Il fatto è che sono tutte persone che non aggrediscono e che argomentano molto bene, è difficilissimo rispondergli. Come fai a rispondere alla sinossi del curriculum della Murgia? Non puoi e basta! È complicato raggiungere un’efficacia del genere. Ed ecco la scappatoia: l’aggressione, l’insulto. Rispondere a persone che argomentano tanto bene e tanto in profondità è quasi impossibile se non ricorrendo alla violenza verbale. È l’unica cosa che rimane, ecco.

Teresa Ciabatti

Perché questa aggressività? È attribuibile solo allo sdoganamento di pensieri e ideali che c’erano già, ma che erano considerati inammissibili o è qualcosa che è stato in qualche modo inculcato?

L’aggressività, questo modo di fare della politica e in generale, è sicuramente molto figlia dei social. Dove l’aggressione è permessa, è lecita. Siamo arrivati a un punto pericoloso, però, secondo me: si azzera la possibilità di confronto se attacchi sempre, è tutto alterato, non c’è una vera discussione. Così non può e non potrà mai esserci dialogo.

Torniamo a La più amata. In che rapporti sei con la Teresa del tuo romanzo?

Diciamo me ne sono dovuta distaccare, a un certo punto. Mi è tornata contro molta aggressività da parte di alcuni lettori, motivo per il quale sono dovuta passare attraverso Matrigna, quest’ultimo romanzo, per cambiare un po’ l’io narrante e ricominciare, in un certo senso. Non c’è più quella voce narrante fastidiosissima. Una voce che, ci tengo a sottolinearlo, è stata creata per scelta. Perché credo che quella voce e quel fastidio che genera possano essere efficaci, di denuncia rispetto alla società. Proprio perché, come ti dicevo all’inizio, non esiste una linea di demarcazione netta tra bene e male. Dopo La più amata però ho dovuto riprendere fiato, ecco. Riprendermi da qualcosa che è stato chiaramente un esperimento letterario. Non ho mai pensato: chissà come reagirà il pubblico a questa storia, a questa voce perché prima un pubblico non l’avevo, a dirti la verità prima non mi leggeva nessuno, dunque perché me lo sarei dovuta chiedere? Volevo arrivare al limite, portare alle estreme conseguenze l’autofiction. Era un ragionamento puramente letterario.

Rispetto a prima, considerato il successo a cui sei andata incontro, senti una pressione diversa? Ti poni allo stesso modo davanti alla pagina bianca? E com’è cambiato il tuo stile da La più amata a Matrigna?

Tra La più amata e Matrigna sì, adesso sono tornata a una sicurezza maggiore. La mia voce è quella, non devo avere paura. Scrivere Matrigna è stato molto complicato. È un libro disturbante, le tematiche sono forti, ma la voce narrante è diversa, adesso, non è più fastidiosa. È un libro più corretto anche stilisticamente, è diverso. Lì ho cercato una lingua e una forma che fossero deliranti, che si adattassero a quel personaggio, non ero io che mi sfogavo, contrariamente a quanto hanno pensato molti. Stile e lingua adesso sono diversi, misurati, scarnificati. È un romanzo molto più pulito, l’altro era folle, sguaiato. C’è una differenza enorme, ecco. Ma non perché io sia cresciuta come autrice, si è trattata di una scelta consapevole.

Un’ultima domanda sulla situazione sociopolitica. Vorrei parlare del caso Altaforte, la casa editrice vicina a Casapound inizialmente ammessa al Salone di Torino e successivamente esclusa perché si accosta al fascismo. Mi è venuto in mente il paradosso di Popper, sull’intolleranza dell’intollerante. In merito, cosa ha funzionato e cosa no? Era giusto o no ammetterli?

Su cosa abbia funzionato e cosa no, non ho idea. È anche un discorso di tempistica, poi le azioni e reazioni delle persone sono state diverse e tutte ragionevoli. Io penso solo che Nicola Lagioia si sia comportato in modo molto responsabile da direttore del Salone, ha cercato di ragionare in ogni momento in funzione di moltissime cose. Personalmente mi trovo d’accordo con Murgia: bisognava essere al Salone, bisognava parlare. E la sua iniziativa, quando ha chiesto ai lettori di portare un romanzo che per loro rappresentasse l’antifascismo, è stata bellissima e assolutamente funzionante. Una cosa incredibile! Ognuno aveva portato un libro con cui si opponeva al fascismo, c’erano centinaia di persone ed è stato un incontro molto bello. Ha più senso questo dell’assenza, per me, ma naturalmente rispetto ogni posizione.

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