L’ultimo giorno felice della mia vita, VI

Illustrazioni a cura di CO:MA

VI. Marcello Risi, Piano fondo

Era tutto a posto. Bastava solo fare come sempre. Marcello scendendo dal treno sentiva che quello non era un giorno fortunato. Sua moglie non era tornata, la bambina aveva pianto tutta notte e quella stupida hostess del treno era riuscita a rovesciarli l’unico bicchiere di aranciata che, nella sua vita, aveva mai osato chiedere in un viaggio. Quella stupida aveva provato a tamponare il problema, ma ne era sorto un altro più imbarazzante, questa volta dentro ai pantaloni e rammaricata era scappata via. Ci mancava poco che non si prendesse una denuncia. Nella toilette aveva poi risolto come poteva, mentre il vestito da due stecche se ne andava a puttane. Pettinate le sopracciglia era poi uscito dal treno, appena arrivato in stazione, stringendo il trolley pieno di fogli prestampati. Non riuscendo a trovare un taxi, alla faccia della crisi, aveva deciso di farsi la strada a piedi. Era tanto che non passava in quella città che lo aveva cresciuto. Le cose della vita lo avevano portato lontano, in campagna, a gestire gli affari o, meglio, a fare una vita bucolica come chi nasce in una metropoli sogna dopo una certa età. Il problema era tutto quello che la città significava. Una connessione internet non poteva risolvere certi problemi che aveva delegato per troppo tempo. Se ne doveva occupare lui, mentre tutto andava crollando e gli alleati di un tempo si erano rivelati per quei testimoni di Geova della domenica mattina, vampiri pronti ad assorbire ogni piccola debolezza che non riusciva a ricondurre verso di sé. Inattaccabile, era sicuro. Solo dopo aver finito con lo straccio si sarebbe potuto fermare e guardare quello che aveva costruito sull’altopiano. Sennò c’era sempre l’Argentina, e quella suggestiva idea del baretto in spiaggia, ma non studiava più all’università. Era ancora lontano dall’arrivo quando, trascinando la sua borsa con le ruote, una Mazda aveva suonato al ragazzo che avrebbe incrociato di lì a poco. Aveva provato pena per lui. Sono cose istintive e gli va data fiducia. Ma Marcello non lo faceva mai e quel brivido che gli aveva percorso la spina dorsale, prima di vedere il pugno arrivare, sarebbe stato più di un’ancora di salvezza se gli avesse dato ascolto. Non era più lo sportivo di un tempo, ma l’avrebbe incassato meglio, è il colpo che non ti aspetti a fare sempre più male e a trovare il nemico scoperto sul lato est. E, cazzo aveva pensato, in cinquant’anni la guancia destra di Marcello Risi non era mai stata così scoperta.

Mi trovavo a disagio a immaginarmi fare queste cose mille volte, seduto su una sedia di plastica dura da oratorio, e spiegare ogni volta che non sapevo perché tutto era successo. Nessuna sala interrogatorio, da nessuna parte si vedeva il vetro specchio con l’eccellente detective capace di segnarsi ogni tuo più piccolo movimento facciale e incastrarti anche per quello che non hai commesso. Magari c’era una macchina della verità sotto al sedile, o mi stavano misurando la sudorazione sulla schiena. Un nuovo poliziotto era seduto dall’altra parte della scrivania, in quell’ufficio che divideva con altri due. Alle sue spalle la foto del presidente della Repubblica, quello vecchio ancora, sul tavolo scartoffie, un computer che ronzava e alcune foto di famiglia. Ci volle un’ora buona, fatta di due caffè, qualche battuta sul calcio e su una collega, perché l’interrogatorio iniziasse. Erano tutti così tranquilli, come se tutto quello che avessi fatto fosse una stronzata e non una colpa così grave da ringraziare di non vivere in California.

“Lei quindi non conosceva l’uomo che ha aggredito in pieno centro storico questo pomeriggio? Vero?”

“Sì, gliel’ho già detto”

“Qui le domande le faccio io”

“Mi perdoni” chi giocava allo sbirro cattivo? E chi a quello buono? Perché invece di scopare ho guardato così tanti film? Era tutto così irreale, le risate del collega alla destra, mentre fissava il pc e chissà quale filmato su youtube.

“Non ha, dunque, idea di chi sia Marcello Risi? Giusto?”

“Risi? Mi pare sia un cognome abbastanza comune. Devo averlo già sentito sì, ma non mi ricorda nulla”

“E lei gioca spesso a fare il vigilantes?”

“Tipo i supereroi dei fumetti?” Non capivo che piega stesse prendendo la discussione. Perché se da un lato me la stavo facendo sotto – anche perché non vedevo un bagno dall’ora di pranzo – dall’altra sentivo che c’era qualcosa di strano. Che, va bene vivere in un dramma televisivo ma mi sembrava tutto troppo scanzonato per essere un colloquio in questura. Era più una cosa da bar.

“Non faccia l’eroe signor Cesti. Qui siamo dalla sua parte. È amica sua quella pazza che sta urlando in corridoio e grida a un avvocato?” Alex, di nuovo.

“Sì, la perdoni, non so cosa le sia preso”

“Dicevamo, quindi lei e il Risi non siete mai entrati in contatto?” Questo suo dire e non dire, mescolato all’accento meridionale, alla lunga aveva preso a infastidirmi.

“Senta, io qui non so di cosa stiamo discutendo. Il pugno? Sì l’ho tirato io. Il motivo? Non lo so. Avrei picchiato qualcun altro se non fosse stato questo Risi? Non glielo so dire. Ora mettiamo fine a tutto questo e mi porti via. Ho bisogno del bagno”

“Non si scaldi, suvvia, devo solo compilare il verbale, la questione è già decisa. Ma non la metteremo in nessuna prigione, non si preoccupi”

“Quindi mi sorbirò una paternale? Per quella ci sono già i miei e, si fidi, sono più che abbastanza. E poi c’è Sara, ah no, è vero, quella mi ha mollato prima. Mi scusi continui”

“Una sgridata? Ma si figuri. Queste giovani generazioni i giornali non sanno proprio cosa sono, eh Sà?” Diceva al suo collega che non stava ascoltando “Salvatoooore!” Urlava e questo emetteva un grugnito di assenso. “Dicevamo Cesti, lei è qui solo per compilare un verbale. La dobbiamo ringraziare, lei è un eroe”

“Un eroe?”

“Stavamo dietro a quel Risi da mesi ormai e mai una volta che riuscissimo a beccarlo. Lei ha fatto una buona azione oggi, dentro alla valigia abbiamo trovato proprio quello che stavamo aspettando”

“Mi sta dicendo che non ci saranno processi o denunce?”

“Certo, è stato un modo non convenzionale, ma sono problemi minori. Un processo ci sarà, ma non contro di lei. In confidenza, tutto questo non sapere e non sapere serve solo alla stampa, le consiglio di rivedersi le cose quando la ascolteranno in aula. Glielo dico solo per scrupolo, non vorrei mai si affondasse da solo. Firmi e se ne vada, qua abbiamo finito.”

“Andare via? Sono libero quindi?”

“Gliel’ho detto. Il Risi stava affossando metà delle aziende della zona col suo piano di investimenti. Era su tutti i giornali. Da domani magari inizi a leggerli. Vada ora che qui abbiamo da fare”

Mentre uscivo dalla porta in legno potevo sentire le risate e il rumore di una bottiglia che si apriva. Alex, intanto, mi era corsa addosso quasi in lacrime.

“Ti hanno rilasciato! Ti hanno rilasciato! C’è pieno di giornali fuori, sei un eroe!”

“Alex, stai zitta”

“Lo dicevano tutti che non valevi niente, ma sapevo che non era così.” Il mio primo bacio lesbo. Io ancora non credevo a tutto quello che era successo e al culo che avevo avuto. Certe giornate storte sono fatte proprio per lasciarti con l’amaro in bocca. Quello che doveva essere l’ultimo giorno della mia vita felice, poi non era stato così male. Un giovane Cobain che aveva sfiorato il primo colpo della vita, che lo aveva costretto a premere il grilletto quasi senza accorgersi.

“Sei un eroe!” Gridava Alex.

“Sì, proprio un eroe” Le rispondevo io, mentre mi rendevo conto di aver schivato l’ultimo giorno felice della mia vita solo per il fatto che di felicità, forse, non ne avevo mai sentito parlare.

 

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