Mindhunter è la serie Netflix che scava nelle menti criminali

Correva l’anno 1977 e in America veniva lanciato sul mercato il primo personal computer, Miami in quell’anno vedeva per la prima e unica volta cadere i fiocchi di neve, il presidente Gerald Ford si dimetteva cedendo il posto a Jimmy Carter, Star Wars usciva per la prima volta nelle sale ed Elvis Presley, prima di lasciarci per sempre, si esibiva per l’ultima volta a Indianapolis. Le donne venivano integrate nel regolare Corpo del Marines e quindici paesi tra cui l’America e la Russia firmavano un patto di non proliferazione nucleare. Pelè giocava la sua ultima partita con il New York Cosmos e San Francisco eleggeva il primo supervisore gay.

Un anno ricco di accadimenti da prima pagina scombussolò la grande macchina che muove gli Stati Uniti quell’anno. Ma il decennio era stato costellato da un’altra cosa che condizionava la tranquillità dei cittadini statunitensi, dipingendo di rosso sangue i notiziari e gli schedari dell’FBI. Proprio lì infatti, all’interno della sezione di scienze comportamentali si iniziavano a smuovere le prime acque che avrebbero portato una rivoluzione nell’ambito criminologico mondiale. Coniando il termine di Serial Killer, Robert Ressler portò avanti uno studio che incrociava le interviste di trentasei omicidi seriali all’interno dei penitenziari statunitensi. L’agente federale si interrogò o per meglio dire, interrogò i mostri che avevano scandalizzato generazioni intere, chiedendone il motivo, il movente interno al loro cervello che li aveva spinti a commettere quei crimini atroci su vittime casuali.

Robert Ressler

 

Ressler allora condusse le interviste scavando nella psiche di questi criminali, provando a capire il meccanismo innescato nelle loro menti, come mai erano portati verso il male, e covassero la volontà di uccidere, di generare sofferenza e scatenare la loro rabbia. Si confrontò quindi con diverse personalità, convincendo questi criminali a raccontargli di più, di più di quanto chiunque avrebbe potuto leggere sulle loro cartelle, di più di quanto era accaduto durante gli omicidi, scavando ancora e inabissandosi nei loro passati ormai remoti ma ancora dolorosi. Conducendo ognuno di loro a parlare della loro famiglia, delle loro condizioni, dei piccoli crimini commessi da piccoli, per poi arrivare ai fatidici giorni in cui si erano resi responsabili del decesso di un estraneo. In questo modo, storia dopo storia, penitenziario dopo penitenziario, gli agenti delle scienze comportamentali riscontrarono nei soggetti delle condizioni affini legate ai loro retaggi infantili, ad abusi, umiliazioni e frustrazioni derivanti spesso da membri stretti della loro famiglia.

Notarono quindi che la maggior parte degli assassini seriali agiva seguendo una propria legge del contrappasso, infliggendo alle proprie vittime le sofferenze estremizzate che loro stessi avevano passato. Arrivando così a capo dei loro modus operandi o contrariamente della loro assenza di metodo. Grazie a queste indagini tanto affascinanti quanto raccapezzanti l’agente Ressler e l’agente Bouglas riuscirono a costruire un database informatico in cui venivano schedati tutte le indagini di omicidi irrisolti, fornendo alla polizia di tutti gli Stati Uniti una rete unica di ricerca in modo tale da scovare più facilmente gli “assassini nomadi”. Le loro ricerche giovarono su più fronti, in particolare una grande innovazione che fu un sistema di classificazione criminale che prendeva in esame anche le caratteristiche delle vittime, oltre a quelle dei carnefici.

 

Lo scorso ottobre, la serie televisiva Mindhunter ha tirato fuori questa vicenda e il modo in cui gli agenti federali hanno agito portando avanti questa ricerca sperimentale, infiltrandosi, grazie ai rapporti empatici creati con i detenuti, nelle loro menti. Studiando l’evoluzione psicologica che li ha portati a diventare degli assassini.
Puntata dopo puntata assistiamo allo sviluppo della vicenda, partendo dall’idea embrionale nata da due agenti federali, alla difficoltà degli stessi di far accettare la loro ricerca dal capo dell’FBI e al conseguente inizio di questo duro lavoro. Partecipiamo con loro alle varie interviste venendo a contatto con assassini come Edmund Kemper e Richard Speck, imbattendoci in personaggi controversi ed estremamente distinti tra loro anche se accomunati da un’unica deviazione e guidati da una rabbia logorante. Ed è così che i lunghi dialoghi tra le due entità opposte scendono nei particolari conducendoci a provare una strana forma di pena nei confronti di carnefici, che dietro le sbarre assumono il corpo di vittime stesse.

È interessante vedere anche come i due agenti federali reagiscano diversamente alle storie e ai racconti dei carcerati, come quelle parole, le descrizioni delle carneficine vengano fatte con gli occhi fissi e vuoti, senza un pelo di rammarico o vergogna. Tutto il materiale raccolto e registrato durante le interviste viene poi passato al vaglio della dottoressa Wendy Carr, personaggio ispirato alla pioniera dell’infermieristica forense, la dott.ssa Ann Wolbert Burgess. Ritraendo il personaggio di una donna forte e competente che pare per niente intimorita da quell’ambiente quasi totalmente maschile.

La prima stagione, composta da dieci puntate, ci lascia in sospeso, facendoci attendere il secondo risultato delle fatiche di David Fincher. Infatti la serie si conclude nel seguito dello studio proprio perché segue così come si sono evoluti i ratti reali della storia, senza passare a conclusioni affrettate, ma filando piano i ragionamenti dei tre protagonisti.

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