Orange is the New Black e l’amara realtà dei centri di detenzione per migranti

«The animals, the animals trap, trap, trap ‘til the cage is full» recita You’ve got time di Regina Spektor; animali rinchiusi in una gabbia finché non è stracolma. Questa canzone fa da sigla e cornice a una delle serie tv più popolari degli ultimi anni che ha concluso il 27 luglio, con la messa in onda della settima stagione, la sua onorata carriera. Stiamo parlando di Orange is the New Black, in gergo OITNB, prodotta da Lionsgate Television e trasmessa dalla piattaforma di streaming Netflix. La serie racconta come trascorre la vita in un carcere femminile in Connecticut, il Litchfield, dove tante storie diverse s’incontrano e si scontrano per arrivare a un triste epilogo comune: il va e vieni dal carcere.

Una serie tv corale che prende il via dal libro-memorie di Piper Kerman, Orange is the new Black: my year in a Women’s Prison, la cui storia viene traslata cinematograficamente in quella di Piper Chapman, simbolo dell’America privilegiata: bianca, bionda e benestante. Durante il suo anno trascorso in carcere, Piper incontrerà diverse donne le cui esperienze denunciano il vero volto dell’America, fatto di disparità sociali, grande divario economico e impossibilità di riscatto. Il sogno americano si infrange ancora di più osservando le condizioni, molto spesso disumane, in cui versano le detenute: nelle scorse stagioni, sono stati trattati temi molto forti e al centro del dibattito pubblico come lo spaccio e l’abuso di sostanze stupefacenti all’interno delle carceri, la riabilitazione (mancante e manchevole) post-detenzione, la violenza e i soprusi nei confronti delle detenute da parte delle guardie carcerarie, le quali dovrebbero invece garantire la sicurezza e l’integrazione in un ambiente così difficile ed esposto a rischi. Ciliegina sulla torta, per la stagione conclusiva si è scelto di mettere a nudo una delle maggiori controversie che attraversa da diverso tempo l’amministrazione Trump: le politiche anti-immigrazione e i centri di detenzione per migranti.

Il cerchio si stringe intorno al gruppo de las latinas, in particolar modo con i personaggi di Blanca Flores e Maritza Ramos, ex-detenute a Litchfield spedite per diversi motivi e circostanze in un centro gestito dall’ICE (U.S. Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia federale statunitense responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione. Le vicende legate alle due donne colpiscono in particolar modo in quanto dipingono perfettamente il quadro reale della politica americana in merito all’immigrazione: Blanca viene detenuta in attesa del rinnovo della Green Card, nonostante ne fosse in possesso in precedenza e si trovasse semplicemente in un momento di stallo a causa delle tempistiche burocratiche; Maritza, invece, vive da sempre negli Stati Uniti e non ha nessun legame con il presunto paese di origine, ma scopre a suo malgrado di non avere un certificato di nascita che attesti l’effettivo diritto a essere riconosciuta come cittadina americana. In tempo di acceso dibattito sui requisiti per ottenere la cittadinanza, la storia di Maritza punta dritto al cuore: secondo la giurisdizione americana è valido il birthright citizenship, il diritto di cittadinanza in base alla nascita a.k.a. il nostro ius soli; la giovane ne è sprovvista il che la rende un’immigrata irregolare introdottasi illegalmente sul suolo americano, pur avendo vissuto solo lì. Ecco il paradosso del caso. Per un motivo o per un altro dunque, Blanca e Maritza vengono lasciate sole, in balia del caso, in attesa di un giudice che deciderà se espellerle dagli Stati Uniti e rimandarle in un paese che certamente non è casa loro.

Senza spoilerare ulteriormente la serie tv e il suo finale, sono sufficienti queste poche scene per lasciarci con l’amaro in bocca e provare una forte sensazione di disagio. Al nostro disagio, però, c’è rimedio: basta spegnere lo schermo; a ciò che invece non c’è rimedio è realizzare che questa non è solo una serie tv. Dallo schermo alla realtà, basta aprire gli occhi. Secondo i diversi editoriali del premio Pulitzer Eugene Robinson per il Washington Post, i centri detentivi americani per migranti versano in condizioni di squallore e sudiciume al limite dell’immaginabile, se non fosse per le foto e i video che circolano in rete: persone ammassate in stanze troppo piccole, che prendono sempre di più le forme di gabbie, sprovviste di condizioni igieniche adeguate e soprattutto di un supporto legale. Le famiglie in attesa dell’esame della richiesta di asilo vengono spesso separate e i minori vengono allontanati secondo il decreto approvato dal presidente Trump nell’aprile 2018 per poi essere annullato nel giugno dello stesso anno.

A proposito dell’assistenza legale, è significativo che l’organizzazione no profit Freedom for Immigrants, con sede in California, avrebbe chiuso i battenti il 7 agosto dopo un’operazione dell’ICE, dopo l’apparizione in una delle puntate della serie tv. L’organizzazione fornisce una linea verde gratuita per coloro che sono rinchiusi nelle strutture detentive in cerca di aiuto per ottenere un avvocato. Solitamente, tra i diritti basilari di un detenuto ci sono a) una telefonata gratuita, b) il supporto di un avvocato (personale o di ufficio), ma ai migranti non sono garantite le stesse cose. Molti affrontano il processo senza avvocato né supporto linguistico qualora ce ne fosse bisogno, l’unica possibilità in loro possesso è contattare dei servizi legali approvati dall’ICE, che come risultato è veramente esiguo. Ovviamente, non è dato sapere se la chiusura dell’organizzazione sia stata una diretta conseguenza della messa in onda di OITNB, ma il tempismo è notevole. Forte come coincidenza, no?

Al confine tra Stati Uniti e Messico, i centri di detenzione vengono descritti come sovraffollati, sporchi, senza cibo e acqua a sufficienza. Persone ammassate, costrette a dover stare sveglie anche al buio per paura di essere deportate, allontanate dall’unico mondo che conoscono. L’insostenibilità della vita in queste strutture non scompone comunque Mr. President, il quale risponde alle polemiche con sarcasmo: «If Illegal Immigrants are unhappy with the conditions in the quickly built or refitted detentions centers, just tell them not to come. All problems solved!», attraverso il suo social preferito, Twitter − insomma, se non vi piace, non ci venite. Eh sì, tutto forte e chiaro, come se i detenuti avessero sul serio un ampio ventaglio di possibilità. Varrebbe la pena soffermarsi sulla condizione stessa del migrante e sugli strani meccanismi che ruotano intorno alla questione immigrazione: il sistema non funziona e non può funzionare; i tempi sono troppo lunghi e le strutture troppo piccole. Pecca ancor più grave, non si può aspettare la messa in onda di una serie tv per prendere atto di una completa mancanza di umanità.

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