Quando è la vita a non essere dolce | Intervista a Giulia Caminito

Giulia Caminito, classe 1988, è da poco tornata in libreria con il suo terzo romanzo, L’acqua del lago non è mai dolce. Già proposto al Premio Strega da Giuseppe Montesano, il nuovo romanzo di Caminito arriva a distanza di due anni da Un giorno verrà, sempre edito in casa Bompiani, e a oggi sicuramente uno dei romanzi più belli usciti in Italia negli ultimi anni.
Da Un giorno verrà cambia molto però, si va avanti di un secolo, dall’inizio del Novecento a quello del millennio che abitiamo per ora; dal romanzo storico in terza persona al racconto in prima di una giovane ragazza, all’interno di una famiglia italiana, probabilmente e purtroppo, come tante.

Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia“, esordisce così la voce narrante del libro, Gaia, riferendosi a sua madre, Antonia, pronta a entrare nel ruolo. Piega ai capelli, scia di profumo che la segue, una valigetta e una frase da ripetere: “Sono venuta per vedere la dottoressa Ragni, ho un appuntamento“. La madre è infatti pronta a fingersi avvocata, per reclamare l’assegnazione di una casa, quella che occupa con la famiglia in un seminterrato. Si lotta per un tetto, quello che dovrebbe essere un diritto ma che di fatti per molte famiglie è un miraggio per cui lottare, contro mille ostacoli burocratici.

Da questa premessa seguiamo quindi la crescita di Gaia, del suo crescere ragazza in una periferia che ignora il centro e che dal centro è ignorata; figlia di una famiglia che vive la precarietà economica, e in cui quasi tutte le spese finiranno per gravare sulle spalle della madre. L’acqua del lago non è mai dolce è anche un libro sull’adolescenza, sui legami che si intrecciano, sfaldano, che possono rivelarsi crudeli, o peggio, fare rivelare crudeli anche qualche parte di noi. Gaia vive un rapporto burrascoso con la madre, fatto di giudizi e aspettative, ma Gaia fa anche un po’ sempre come vuole. Vive il muoversi nel mondo da persona che non ha, non possiede rispetto ai compagni e le compagne; vive il lutto e poi la rabbia; fa dello studio una forma di riscatto, ma è in grado di imbracciare un fucile se è il caso. Tutto con la presenza inevitabile del lago, il lago di Bracciano, che si fa scenario di momenti di serenità e di profonda perdita.

Il risultato è un romanzo denso, che a differenza della narrazione più lineare del precedente lavoro di Caminito, si presenta più ricco di guizzi, di sensazioni, immagini vivide nella mente anche se Gaia è sulla moto di un amico nel buio più pesto, come quello che si incontra imboccando l’età adulta. Proprio per questa alternanza di vicende secondo me il romanzo finisce per risultare un po’ incostante nella tenuta. Sibilla Aleramo nel suo Diario di una donna scriveva su Artemisia di Anna Banti che era un ottimo romanzo, ma aveva “un difetto: […] è troppo voluto“. una volontà che sento vicina in qualche modo anche ad alcuni elementi inseriti nel libro e poi chiariti nelle note finali del testo. L’acqua del lago non è mai dolce resta comunque una delle proposte più interessanti di questo nuovo anno editoriale e dei suoi mille spunti ho avuto modo e il piacere di parlare direttamente con l’autrice. Di seguito il nostro scambio.

Io procederei passo passo e quindi inizierei dal titolo: L’acqua del lago non è mai dolce? Molte persone hanno definito il lago uno dei personaggi di questo romanzo, che è sicuramente un’entità presente, sfondo ma anche fulcro di alcuni eventi del tuo libro. Cosa intendi quando dici che “la sua acqua non è mai dolce”?

La non-dolcezza è da una parte un fatto oggettivo, gustativo anzi: è impossibile assaggiare l’acqua del lago e definirla dolce. Si dice tale solo perché manca la sapidità del mare, quindi per differenza e contrario, ma non per verità. Poi nel romanzo è la vita a non essere dolce, a riservare amarezze, fatiche, scontri, sconfitte alla protagonista e voce narrante, le cui giornate si specchiano nell’acqua ferma e scura del lago di Bracciano, dove vive con la sua famiglia.

La protagonista del tuo romanzo, Gaia, in una delle prime pagine dice “Viviamo in un quartiere che a mia madre non piace chiamare periferia, poiché per periferia devi aver presente quale sia il tuo centro e noi quel centro non lo vediamo mai, io non ho mai visitato il Colosseo, la Cappella Sistina […]”. Questa è ovviamente contestualizzata a Roma, alla sua periferia e poi alla sua provincia, ma penso sia una condizione che accomuna molte delle periferie italiane. Pensi sia importante parlare di periferie? Come si può sanare questo scollamento da centro e periferico?

Negli ultimi anni si sta scrivendo molto delle estreme periferie delle nostre città principali, forse perché i luoghi periferici sembrano portatori di maggiori narrazioni, a contatto con più evoluzioni e cambiamenti, con una dimensione della vita diretta, autentica. Chi scrive credo sia sempre alla ricerca di materia viva, materiale organico, il centro delle città svuotato dalla vita e riempito da vetrine, turisti e prezzi impossibili è stato nel corso degli anni denutrito e con difficoltà può diventare spazio di storie trasversali capaci di raccontare il nostro paese a più livelli. Il rapporto centro-periferia penso sia particolarmente estremo a Roma perché è una città grande, ha una perimetro, compresa l’area metropolitana, tale da essere tra le città più estese d’Europa e ha un centro storico che è tra i più famosi al mondo. La distanza non solo fisica, ma anche espressiva e simbolica, tra le periferie della città e il centro è tale che è cresciuto un senso di profonda estraneità. Sono molti i romani a cui non viene mai in mente di andare al Colosseo, molti quelli che non sono mai stati a San Pietro, rispetto a questa parte della città perdura la consapevolezza della sua bellezza storica e artistica ma non della sua vivibilità.

Nonostante la presenza nelle narrazioni, io penso che a livello politico e sociale manchi quasi totalmente un interesse per le periferie, cosa che va a braccetto con un discreto classismo di questo paese. Il tuo romanzo dopo tutto affronta la periferia, ma anche la precarietà economica della famiglia di Gaia e di molte altre famiglie italiane: lavoro in nero e mancate tutele sul lavoro, diritto alla casa. Quanto questo influenza la crescita e la formazione di Gaia rispetto ad altri e altre coetanei/e e il suo rapporto con loro?

Sicuramente la situazione famigliare cambia la sua idea di mondo possibile, i suoi desideri, incrementa il senso di esclusione. Il punto da cui Gaia parte è svantaggiato, il suo tentativo di salita inefficace, la sua ribalta non arriva mai, i riflettori non si fermano in alcun caso su di lei. Crescere per lei vuol dire provare costantemente a colmare la distanza tra se stessa e chi la precede, ma questo inseguimento non si conclude mai, è perpetuo. Gaia guarda gli altri con invidia, con dolore, con frustrazione, sembrano possedere ogni volta qualcosa che lei non ha e a cui non può neanche ambire. Questa inadeguatezza inquina tutti i rapporti, la riempie di rabbia, furia, la spinge all’aggressione.

Giulia Caminito

Gaia reagisce provando a meritarsi le “cose”, studiando, immagazzinando saperi. Continua a studiare oltre ogni consiglio delle insegnanti. Si laurea in filosofia. Dopo la laurea però trovare un lavoro non è semplice. Gaia è una sorta simbolo del fallimento della società rispetto alla sua e nostra generazione?

Sì, la sua vita raccontata in prima persona mi è servita anche per dire delle cose sulla nostra società che riguardano chi ha la mia età. Ovviamente non tutto è detto in questo romanzo, ma ci sono delle tracce, degli spunti, delle osservazioni critiche. Il percorso di Gaia è circolare, un cane che si morde la coda, un gioco in cui a un certo punto ti ritrovi sulla casella “riparti dal via” e ricominci da capo, ancora e ancora. Questa sensazione di mancato traguardo penso rappresenti questi anni e il nostro approccio all’età adulta.

Gaia ha anche alcune reazioni violente, verso cose ma anche persone. Qual è la radice di questa rabbia?

Tanta rabbia lei ce l’ha nei confronti della madre, di ciò a cui sembra averla destinata facendola nascere: un non avere, un non essere come gli altri, non essere all’altezza, secondo lei. Poi rabbia verso i coetanei che possiedono più di lei, che la tormentano, che la tradiscono, che la additano, che la colpiscono con le parole e lei sente di poterli raggiungere solo con le sue aggressioni per ristabilire il confine, difendersi, non farsi schiacciare.

A un certo punto il fratello maggiore di Gaia, Mariano, più rivoluzionario, sicuramente più politicizzato, viene coinvolto dalle vicende del G8 di Genova. È un dettaglio casuale utile per una collocazione temporale?

No, non è casuale e non serve solo a definire gli anni precisi. Genova è un grande evento che ha aperto il nostro secolo, un evento di partecipazione politica molto importante, di repressione dello Stato, un evento simbolico che tutti in Italia conoscono. L’Italia è storicamente legatissima alle proteste di piazza, ai morti per mano della polizia e alle insurrezioni, ma noi sembriamo essercene dimenticati. Però non ci siamo dimenticati di Carlo Giuliani, e questo vuol dire che qualcosa si è fermato nelle memoria collettiva. La differenza tra Mariano e Gaia è rappresentata da quell’evento. Mariano pur essendo ancora piccolo decide di partecipare, ha delle idee che vuole seguire, ha voglia di esserci, prendere voce, muoversi, insieme agli altre e alle altre. Gaia vede il G8 sullo sfondo, nel disinteresse, nell’assenza di dialogo sulla società, sul mondo che caratterizza il suo rapporto con le amiche e gli amici. Le idee, se vogliamo acerbe, ancora in fieri, ma vive dei giovanissimi che prendono parola nel dibattito pubblico non vanno derise, sono il germe possibile di una futura coscienza civica più marcata, quella che decisamente manca a Gaia e a tanti come lei.

Un altro personaggio con cui Gaia ha sicuramente un rapporto difficile è la madre, Antonia. So che la sua storia è ispirata a quella di una donna che hai realmente conosciuto. Ce ne parli un po’?

Il personaggio di Antonia è ispirato a una donna che conosco, infatti il filo della trama che riguarda la lotta per l’assegnazione di una casa popolare è ripreso dalla sua vita. Anche la capacità di Antonia di riparare, correggere, elaborare, contenere ogni oggetto, ogni aspetto della vita casalinga e famigliare vengono da questa persona. Io ho aggiunto una certa durezza ad Antonia, l’ho resa più rocciosa, più tagliente, più entrante e difficile da sostenere. Credo comunque sia una caratteristica interessante delle persone con uno spirito pratico (capaci di costruire, tagliare, disegnare, piantare ecc) quella di essere molto giudicanti rispetto alle creazioni altrui. Loro in qualche modo lo sanno fare sempre meglio e ci tengono a dirlo. Una posizione giusta e reale, perché è vero che lo sanno fare meglio, ma nella dinamica madre-figlia ho immaginato che questo sentirsi sempre giudicati e un po’ inabili possa pesare e modificare gli equilibri di una bambina prima e donna poi.

Nelle note di chiusura al tuo romanzo fai riferimento alle personagge – termine usato soprattutto da chi come te si occupa di questioni di genere e letteratura. Dato il tuo lavoro di riscoperta e valorizzazione delle autrici italiane del Novecento, riconosci nella tua genealogia di scrittrice l’influenza di alcune di queste? In particolare in questo romanzo?

Il termine personaggia, come tu hai scritto, non è una forzatura della lingua italiana (per quanto io sia totalmente a favore di ministra, architetta, ecc e non le considero storpiature, piuttosto aggiornamenti) ma appunto è una categoria del lessico della letteratura di genere (su questo “L’invenzione delle personagge” Iacobelli 2016). Le scrittrici di riferimento per questo libro sono sicuramente Elena Ferrante, sia per quanto riguarda L’amica geniale che L’amore molesto, poi mi sono molto nutrita di Matilde Serao e il suo sguardo sulla povertà, a cui non dà scampo spesso, la sua amarezza, ma anche la sua precisione delle parole, la capacità letteraria che cala nei contesti più estremi di disperazione e abbandono.

 

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