Quel difficile rapporto tra rap e televisione in Italia

Secondo appuntamento con il focus dedicato alla scena rap e hip hop nel nostro paese. Dopo la prima parte, Il rap (ri)visto dal Belpaese, vi auguriamo una buona lettura.

Qualunque sia la strada scelta tra indipendenza e mainstream, la crescita di un movimento non può prescindere dalla professionalità dei suoi protagonisti e di chi lo circonda. È la visione di Thomas Edison o, per i più à la page, di Whiplash: “il genio è 1% ispirazione, 99% traspirazione”. Professionalità che secondo Paola Zukar è mancata – anche qui, in parte per una consapevole scelta ideologica, in parte per l’effettiva ingenuità del settore – nel momento di massimo successo del rap in Italia, quello dei centri sociali negli anni ’90.

“C’era un’attitudine molto punk, ed è normale che non potesse durare in quel modo” (Rap. Una storia italiana, Paola Zukar)

Nonostante l’indiscutibile valore delle pietre miliari nate in quegli anni, è pacifico concludere che, in fondo, si sia persa un’occasione epocale: ribaltare il pensiero dominante, quantomeno quello musicale, quantomeno tra i più giovani. E il dubbio amletico ritorna: avrebbe potuto una gestione “professionale” di quell’ondata di entusiasmo, anche mediatico (con tanto di Articolo 31 ospiti a Carramba), dare uno scossone più forte alla cultura mummificata del nostro paese? O tutto questo sarebbe accaduto a scapito dell’autenticità del messaggio? Questa pubblicità della Fiat Uno, datata 1992, può essere un buon punto di partenza nella ricerca di una risposta.

La fotografia pronta per un video vaporwave, la coppietta che si abbraccia sul lungomare, il tizio inspiegabilmente sdraiato sul cofano a prendere il sole, il vasto assortimento di colori in pronta consegna: cosa dire se non “hip hip, rap up!”. L’utilizzo forzato, quasi violento, del rap di J-Ax, finalizzato a vendere una Fiat Uno ai ggggiovani, rappresenta, a mio parere, la deriva più pericolosa che avrebbe potuto prendere la scena rap se affidata alle cure degli impresari televisivi nostrani. Trenta, fottuti secondi tradiscono quella tipica bava alla bocca che viene ciclicamente ai pubblicitari di fronte al “fenomeno del momento”: una persona, un oggetto, un comportamento che, per quanto profondo, andrà sminuzzato, ridotto a feticcio, derubricato a “moda passeggera”, svuotato della sua essenza. D’accordo, è una serie TV, non la realtà – anche se House of Cards ha un po’ scombinato le categorie – ma è tristeconstatare l’abisso tra chi ha pensato la campagna della Fiat Uno, nel 1992, e il pubblicitario per antonomasia, Don Draper, nel 1966.. Il protagonista di Mad Men, ascoltando per la prima volta sul divano di casa Tomorrow Never Knows, comprende, in trenta, fottuti secondi, come il mondo che ha conosciuto fino a quel momento sia destinato a scomparire e, subito dopo, a come trarne profitto, of course.

Saranno pure due lati della stessa medaglia – sempre di strumentalizzazione commerciale si tratta – ma se, nel caso della Uno, il rap esce dal passaggio televisivo con le ossa (e la credibilità) ammaccate, Don Draper ha almeno il coraggio di rimettere in discussione se stesso e i propri principi, parlando con quegli hippies che lo disprezzano, prima di saccheggiarne l’estetica per vendere tubetti di ketchup alle casalinghe americane.

Le rime migliori passano talvolta in secondo piano rispetto agli orecchini col diamante, agli occhiali da sole sfavillanti, al cappello e alla cintura di Gucci… Vale per il pubblico e vale per la critica. (Rap. Una storia italiana, Paola Zukar)

Senza dubbio, l’ambiente politicizzato dei centri sociali in cui il rap è nato e cresciuto da noi ha fatto la sua parte nel plasmarne le tematiche, le priorità sociali e politiche e, perché no, le avversioni e i tabù. Con gli anni, però, il rapporto del rap con il denaro, con la fama ed i compromessi che portano con sé, di cui Zukar parla a lungo nel suo libro, sembra essere, nel senso più neutrale del termine, migliorato. Il disimpegno della trap simboleggia al meglio questa fase di rigetto della politica e di un certo tipo di retorica. Se i Dogo, con il loro edonismo bombastico, giocavano sul paradosso, sull’accoppiata Gué-Minetti, “(la trap italiana) non tenta di essere rivoluzionaria in un momento storico che cerca altro e si appoggia quindi più sull’immagine, flirtando subito con vari brand modaioli e coi locali in cui si balla” (Zukar). E sarebbe interessante analizzare il percorso che ci ha portato dagli Almamegretta a Ghali (con tutto il rispetto per entrambi), in termini di suono e di testi, certo, ma, fatto forse più interessante, di luoghi. La perdita di centralità del centro sociale come perno per l’aggregazione e il lancio di talenti, in favore di un approccio solipsistico, se si esclude il feedback 24/7 della comunità digitale, alla creazione.

Se non ci fosse stato Internet, questa nuova ondata del rap italiano nel mainstream non ci sarebbe stata. (…) Ma in dieci anni sono già cambiate molte cose: ormai anche la musica in Rete strizza pesantemente l’occhio alla musica del circuito tradizionale, la imita, sia nel rap che in altri generi… (Rap. Una storia italiana, Paola Zukar)

E se ambiguo è l’effetto di Internet sul processo creativo, non lo è da meno quello che esercita sui frutti, di quel processo. Dopo aver indubbiamente fornito nuova linfa alla comunità del rap, come a tutte le nicchie di controcultura, questo mezzo così apparentemente rivoluzionario sembra essersi trasformato in poco più che una televisione 2.0, in un nuovo strumento di marketing tramite cui esercitare la “dittatura della maggioranza”. “Ed è questa maggioranza lenta e grassa come un blob che decide ancora una volta con il telecomando in mano, come se anche Internet fosse schiava dell’Auditel, dei grandi numeri”. La televisione, di nuovo lei: ancora oggi, il nemico pubblico numero 1 del rap italiano.

Il rap si ciba di immagini e personaggi da citare, di nomi e di cognomi, di riferimenti reali benché metaforici. (Rap. Una storia italiana, Paola Zukar)

In primis, perché il suo ruolo totalizzante nella quotidianità italiana non permette a chi scrive di alzare l’asticella nei suoi riferimenti senza rischiare di risultare incomprensibile alla maggioranza di chi lo segue. Citare Tina Cipollari, Belen e Malgioglio è divertente e sacrosanto, ma un po’ sterile: rimanendo all’interno dell’autoreferenziale carrozzone televisivo, chi ascolta non è incuriosito a scoprire qualcosa di nuovo, ad ampliare i propri orizzonti. E diventa impossibile creare una scena che sia multidisciplinare, com’è successo con L’odio di Kassovitz in Francia, o con il rock in ogni parte del globo.

In secondo luogo, poi, c’è la solita questione dei talent, demonizzati così come chi decide di diventarne parte (Fedex, J-Ax…). A questo proposito, il ragionamento di Paola Zukar nel suo libro è molto simile a quello di Manuel Agnelli, uno che con queste realtà si è sporcato le mani in prima persona. Nelle decine di interviste che ha rilasciato per parlare della sua partecipazione a X-Factor, Agnelli ha sempre sostenuto come fosse ingenuo illudersi che una persona, da sola, potesse ribaltare il format: chi entra in televisione viene sempre, inevitabilmente reso una macchietta di se stesso, è sempre funzionale al prodotto, a maggior ragione se gioca la carta dell’outsider. La sua scelta è stata quella di entrarci in quel meccanismo, “per il potere”. Il potere che una certa autonomia economica può dare, sia di creare con maggiore libertà che di finanziare di tasca propria progetti che sai già saranno in perdita; il potere che la verità di una parola, pur rimasticata e decontestualizzata dal medium, potrebbe avere anche su un singolo telespettatore. Il prezzo da pagare, ovviamente, è piegarsi a un certo tipo di buonismo e manipolazione. Niente è gratis al giorno d’oggi, Facebook incluso. Ecco, forse tra qualche anno ripenseremo con rimpianto allo sdegnoso rifiuto del rap di sfruttare egoisticamente questa situazione, proprio quando aveva raggiunto una sua autonomia culturale, ma anche economica, da potergli permettere di uscirne (forse) indenne.. Proprio quando aveva la forza per impedire che un altro Uno Rap venisse al mondo.

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