Netflix sapeva già che avrei guardato The Social Dilemma

Il 2020 è stato un anno segnato da diverse controversie. Sul podio quelle intorno alla pandemia globale ancora in atto che hanno generato un dilagante scetticismo: dalle mascherine ai sintomi, dagli asintomatici alle discoteche aperte, tutto è stato criticabile e criticato. Last but not least, la polemica sull’app Immuni utilizzata come strumento di monitoraggio e contenimento dell’epidemia. Molti italiani non hanno scaricato Immuni e non ne hanno intenzione. L’app, sebbene consigliata dalle istituzioni con la garanzia del totale rispetto dei dati sensibili, sta vivendo lo scotto dell’era digitalizzata, in cui la tecnologia è contemporaneamente la nostra copertina di Linus sia il mostro in agguato sotto il letto.

La paura dei possibili utenti in merito a Immuni riguarda la raccolta e l’utilizzo dei loro dati personali, cosa che crea un bizzarro paradosso considerando che 1 italiano su 2 ha in attivo un profilo Facebook, Whatsapp, Linkedin e così via. I social network sono diventati, al contrario, parte integrante della vita comune e si portano dietro il susseguirsi di limiti, conseguenze e svantaggi di cui però la maggioranza degli utenti non si fa scrupolo. Il documentario lanciato su Netflix lo scorso settembre The Social Dilemma, diretto da Jeff Orlowski, prova a denunciare le delicate implicazione etico-sociali dell’utilizzo dei social nella vita delle persone come mezzo di comunicazione e d’informazione.

Il documentario si sviluppa secondo un doppio filone: da una parte vediamo le testimonianze e interviste di professionisti del settore, come Tristan Harris ex-Google e ora presidente del Center for Human Technology, e dall’altra la rappresentazione dell’impatto dei social su una famiglia media americana con figli adolescenti. Il mondo che ci viene mostrato è completamente sotto il controllo delle multinazionali della tecnologia, che agiscono secondo una linea di principio in cui se non paghi per un prodotto, il prodotto sei tu. I social vengono programmati con lo scopo di tenere incollati gli utenti allo schermo per il maggior tempo possibile, generando dei contenuti ad hoc in base a ogni profilo e ricavando profitti dalle pubblicità. I dati e le informazioni di cui lasciamo traccia durante la navigazione online vengono utilizzati con lo scopo di definire quel dato profilo e manipolarlo verso determinati contenuti. È come stare dentro una slot-machine in cui sai già che guarderai il prossimo video, aprirai il prossimo link perché delineato, scelto apposta per te e nel frattempo gli introiti aumentano.


La manipolazione a cui siamo sottoposti ha radici profonde e trova terreno fertile in tutti i campi del sociale. I fenomeni complessi che aiutano a costruire l’opinione pubblica trovano nei social un’arma a doppio taglio: una maggiore quantità di informazioni disponibili non necessariamente significa una maggiore qualità ed è più facile dirottare gli utenti verso gli interessi di chi sta dietro agli algoritmi. Questo genere di meccanismo assume una portata maggiore di complicazioni nel momento in cui i social vengono utilizzati anche come mezzo d’informazione o di propaganda: abbiamo visto tutti il genere di caos che una fake news può generare in momenti delicati come una pandemia globale o durante un attacco terroristico. Inconsapevolmente – chi più, chi meno in base al proprio background culturale – agiamo secondo quello che gli algoritmi ci indicano. Anche nella sfera della vita privata, i social hanno creato degli standard di vita irraggiungibili. Stili di vita, di bellezza talmente irrealistici che hanno generato l’aumento di depressione, ansia e autolesionismo soprattutto nei più giovani.

La verità è che, seppur il documentario sia un progetto ambizioso e doveroso, lascia più domande che risposte. La denuncia ad un uso più consapevole e controllato delle piattaforme social rimane a livello superficiale perché non fornisce nessuna soluzione efficace. Inoltre, comodo per la piattaforma Netflix pubblicare un documentario che ha come soggetto esclusivamente i social media. Eppure, Netflix si nutre degli stessi algoritmi che prevedono i gusti e le abitudini degli utenti per proporre nuovi titoli. La morale della favola è che Netflix sapeva già che avrei guardato The Social Dilemma e quale indice di gradimento avrebbe avuto. Ovviare l’algoritmo non si può e cancellare i propri profili non è neanche la soluzione giusta, dal momento che la tecnologia dovrebbe essere uno strumento in più. The Social Dilemma è utile, ma problematico per almeno dieci ragioni ma prima fra tutte è la totale negligenza verso una necessaria educazione a un utilizzo etico della tecnologia.

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