Thom Yorke – Suspiria

This is a waltz / Thinking about our bodies / What they mean / For our salvation

Nei primi quattro versi di Suspirium – primo singolo che Thom Yorke ha estratto dalla colonna sonora di Suspiria di Luca Guadagnino, uno dei film più attesi della stagione (esce oggi negli Stati Uniti in concomitanza proprio con la release del doppio album del cantante dei Radiohead) ci sono già tutti gli elementi che dominano l’opera.

Infatti, anche se per vederlo in Italia saremo costretti ad aspettare gennaio del prossimo anno, i temi della nuova trasposizione del regista siciliano – più che un remake del capolavoro di Dario Argento del 1977, un “omaggio” alla “potente emozione” che provò quando guardò per la prima volta il film – sono quelli dell’originale: il corpo della protagonista che entra in una prestigiosa accademia di ballo – con il tempo d’azione trasposto nella Berlino del 1977 – la danza, appunto, e il senso costante di una minaccia e di un mistero che – trasfigurato nell’immaginario horror – parla e conduce verso più reali e tangibili paure.

I bordoni di synth che introducono il doppio disco con A storm that took everything – il film di Argento vedeva l’arrivo della protagonista proprio sotto un improvviso e violento rovescio di pioggia – e subito dopo i gemiti di The hooks, il rumore di uno schizzo di sangue e poi ancora un levare degli archi – che richiamano le ultime più convincenti prove del maestro Morricone – sollevano il sipario su uno scenario musicale che sembra attenersi alle regole di una classica soundtrack horror. Eppure bastano solo pochi secondi per capire che non sarà affatto così. Proprio Suspirium – un valzer elettronico di struggente malinconia venato da raggi di luce che saranno una costante dell’intero lavoro – arriva a sparigliare le carte: all’interno di un disco lunghissimo – un’ora e venti di musica – Yorke ha elaborato una trama che lascia spazio a vere e proprie canzoni che si rivelano essere tra le cose più belle mai registrate nella sua carriera solista.

Has Ended – la seconda canzone del disco – è sostenuta da un ritmo di batteria crescente suonato dal figlio diciassettenne Noah e rivela nel testo i fantasmi di un’attualità che non è riuscito a tenere fuori. Se da un lato mantiene, infatti, i richiami alle atmosfere del film – “The witches all were singing” – è impossibile non riconoscere nei versi “Then the idiot was alone, was alone / And the water, it forgave us / And the fascists felt ashamed / At their dancing puppet king” un ritratto del Presidente Americano Donald Trump. Del resto è lo stesso Yorke a dirsi – nelle interviste che si susseguono in questi giorni – turbato profondamente dal Presidente-Tycoon come anche dalla Brexit che sta attanagliando il suo paese in un clima autunnale di profonda incertezza.

Klemperer Walks sfrutta nuovamente appieno i rumori di fondo del film per costruire un pezzo capace di reinterpretare i brividi horror in una chiave minimalista che guarda soprattutto a Philip Glass per poi lasciare spazio alla suggestiva chitarra di Open Again cui dona un arrangiamento d’incredibile ricchezza costruito su una danza che l’insegnante dell’accademia (la musa di Guadagnino, Tilda Swinton) insegna alla giovane allieva (Dakota Johnson) per poi sgretolarsi in tanti minuscoli frammenti come al passare di uno stormo di uccelli dalle ali cattive.

La composizione della soundtrack ha richiesto un anno e mezzo di lavoro in un continuo scambio col regista. La maggior parte dei brani è stata composta prima delle riprese consentendo a Guadagnino di utilizzarle direttamente sul set, mentre altre – soprattutto quelle al piano – sono invece state, in maniera inversa, influenzate dalla visione di alcune scene in anteprima.

Intelligente nel rifuggire da qualunque tentativo di replicare il tema originale – quella ninna nanna horror che resta uno dei brani più belli composti da Claudio Simonetti coi suoi Goblin – Thom Yorke dimostra, al netto delle canzoni di cui si è detto, di possedere – lungo il percorso che si dipana nei due dischi – una tavolozza ampissima di colori che ritraggono un paesaggio sonoro capace di tenere insieme le atmosfere à la Vangelis nello storico Blade Runner con la musica concreta del versante elettronico (Pierre Henry che fu allievo di Olivier Messiaen) fino alla stagione del krautrock (o kosmische musik che dir si voglia) nella sua accezione più esoterica e sperimentale.

Se Sabbath Incantation è un canto gregoriano che, avvalendosi della London Contemporary Orchestra and Choir – già al lavoro con i Radiohead per A Moon Shaped Pool – rovescia il lirismo sacro del compositore estone Arvo Pärt (particolarmente caro a Jonny Greenwood) dentro uno specchio deformato che restituisce una liturgia spiritica, l’intero Suspiria è un lungo ipnotico incantesimo, una spirale di suoni e atmosfere curate in maniera quasi maniacale. Olga’s Destruction (Volk Tape) somiglia a un nastro che gira su se stesso lasciandosi andare, senza mai perdere il controllo, a sperimentazioni sonore e dinamiche seriali.

Ma sono soprattutto i tasti bianchi e neri del pianoforte a fare da trait d’union dell’intero lavoro – puntello melodico delle strutture ora più complesse, ora più evanescenti che stanno dietro molte delle composizioni strumentali. The Conjuring of Anke, affidato a un coro di voci solo femminili è il contraltare angelico al sabba demoniaco precedente.

A chiudere il primo disco tra le atmosfere alla William Basinski di A Light Green e quelle synthwave di The Jumps ci pensa l’ultima canzone – Unmade – ancora per piano e voce, mentre il secondo disco si apre con gli oltre sei minuti della bellissima Volk che sembra uscita da un incubo dei Tangerine Dream per poi sciogliersi in un impasto sonoro ambient (dire Berlino 1977 significa anche richiamare alla memoria la stagione incredibile di Eno e Bowie ai piedi del Muro).

Brano dopo brano si comincia a cogliere come la grandezza di Suspiria – nell’enormità delle sue dimensioni – sia racchiusa nella varietà e nella ricchezza degli arrangiamenti e delle intuizioni musicali, nella capacità di legare, incrociare e fondere diversi linguaggi – da quello delle soundtrack all’elettronica, dalla musica sperimentale di un certo novecento ai delay di The Universe is Indifferent che ci traghettano lungo atmosfere qawwali che avvolgono in spire nebulose ed estatiche la voce riverberata di Yorke per concludersi con un intreccio di bordoni di archi.

Suspirium finale rappresenta una sorta di conclusione, un reprise che ripropone il tempo in tre quarti del valzer iniziale arricchendolo con l’orchestrazione degli archi, il piano ossessivo e sostenuto come un basso continuo, frammenti in lontananza delle liriche che scorrono come in dissolvenza e che avvicinano Yorke alle migliori esperienze compositive del gemello musicale Greenwood, che delle colonne sonore è ormai maestro indiscusso.

I tempi sospesi, le variazioni armoniche di Suspirium finale non rappresentano però la fine dell’album. I successivi quattordici minuti di A choir of one sono un impressionante ripiegamento dentro un cavo sonoro che nulla ha da spartire con la musica pop. È come se il suono si accartocciasse su se stesso alla ricerca di una intima primordiale natura. Un brano ripetitivo e ossessivo che sembra voler andare oltre i limiti di una dimensione umana. È una lunga e cupa processione sonora che abbandona l’etereo per farsi quasi materica. Branco di animali infernali dai corpi scavati che risalgono da crepe umbratili e notturne per infettare l’aria con i propri miasmi, corrotti da una fame feroce, ostile e insaziabile. È un paesaggio metallico fatto di roccia lavica e antracite che Yorke ci costringe ad abitare anche nei brevi frammenti che ci separano da The Epilogue, vero epilogo dove la tenue ripresa del tema di Suspirium dona un’ultima salvifica lama di luce a squarciare l’orrore.

Suspiria è certamente il disco più importante dello Yorke solista. The Eraser come Tomorrow’s Modern Boxes del 2014 avevano mostrato sì brani convincenti ma anche troppe ombre e riempitivi. Qui, invece, alle prese con una materia differente, che solo di struscio si lascia piegare da forme più direttamente pop, Yorke si offre in tutta la sua parte più sperimentale riuscendo alla fine a contenere tutte i deragliamenti – che pure sarebbero stati possibili – all’interno di un impasto sonoro variegato ma assolutamente coeso.

Non incatenato dalla necessità della forma canzone, Suspiria si manifesta come un caleidoscopio cupo e discontinuo, plumbeo e glaciale che lascia passare spifferi da sotto i telai consunti di una vecchia finestra da cui però filtrano i primi raggi di sole di un’alba insperata. Non sono brividi di paura di grana grossa, quanto timori, piccoli cedimenti emotivi, ansie, preoccupazioni, tensioni che restituiscono una cifra emozionale che si fa assolutamente contemporanea.

Nel godere di questo piccolo gioiello non resta che aspettare l’anno nuovo per scoprire come la musica si fonderà con le immagini visionarie di Guadagnino. Per adesso è però certo che il prossimo anno ci attenderà anche un nuovo disco solista di Yorke che proprio ieri, nel giorno che precede l’uscita del disco, ne ha rivelato – in un’intervista a El Mundo i primi dettagli – “Sarà un disco molto elettronico ma diverso da tutto ciò che ho realizzato finora. Un processo strano: registriamo le canzoni in studio per poi spezzarle successivamente e ricomporle. Un modo strano di lavorare a un disco ma molto emozionante”.

Per adesso sappiamo bene cosa ascoltare nell’attesa.

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