L’ultimo giorno della mia vita felice, III

Illustrazioni a cura di CO:MA

III. Lucia, piano quinto

Nessuno dei due sapeva cosa ci sarebbe successo ma, dopotutto, chi lo sa. Ci eravamo incrociati sulle scale, come sempre, lei tutta arrossata per i cinque piani, io poco interessato a chi mi stava dietro. Andava sempre così, sbattendo la porta quando ricevevamo ognuno la visita di qualcuno che non doveva sapere di noi. Non lo doveva sapere Lev, che era insieme a me a braghe calate quando era appena arrivata carica di scatoloni e si era fiondato ad aiutarla, mentre Alex usciva dalla doccia e lo fissava insieme a me dalla finestra ridendosela di gusto. Non era mai successo nulla, lei così preoccupata degli altri e di come si sarebbero sentiti, io col gusto sotterraneo che non sarei mai riuscito davvero a realizzare. Certe cose capitano, non puoi che farci i conti con la chimica e lasciartene prendere. Le responsabilità che ci prendevamo sempre di più, quel trasferimento e quella volta in cui avevo incontrato il suo ragazzo e la mia gelosia del tutto ingiustificata. Avevo e ho ancora una ragazza, ma nei miei sogni non ci finiva mai, e so che per lei era lo stesso, per Lucia intendo, ma forse non solo per lei e le sue braccia di litio. Erano le braccia più lunghe che avessi mai visto in una donna, sempre nascoste, e ci parlavamo poco, tutto era successo mentre bestemmiavo alla prima rampa di scale perché le uova si erano rotte ed ero indeciso fra il lasciare tutto lì e il pulire. Lei mi si era accostata chiedendomi se avevo bisogno. Riusciva a essere lontana e allo stesso tempo amichevole. Mi aveva aiutato a pulire ed era stato naturale invitarla a prendere un caffè, pensando alla faccia di Lev vedendola lì, ma erano giorni in cui scompariva e mi aveva tolto quel gusto di avercela fatta. Si ricordava pure di lui per il fatto che ogni volta che si incrociava fuggiva imbarazzato come un ragazzetto davanti alle carezze di una vecchia zia lontana col rossetto sbiadito e la presa di una wrestler. Si era trasferita da un paesino della Romagna per finire in uno studio di pubblicità digitale da qualche parte in Vanchiglia ma non ne era così convinta. Annuivo con trasporto ma, in realtà, non capivo nulla. Quella zona non l’avevo nemmeno mai vista, come se il mio Google Maps fosse vittima di una connessione a 56 kappa, la stessa velocità con cui in fin dei conti mi muovevo. Mi ricordo che aveva messo così tanto zucchero nella tazzina da avermi fatto pensare che ci fosse qualcun altro con lei, una gemella obesa, unica giustificazione per la sua circonferenza perfetta. L’avevo vista uscire a correre ma ho sempre temuto non mangiasse abbastanza, come una nonna avevo provato a invitarla a cena da noi, dove il cibo spazzatura abbondava, ma non ero mai riuscito a farla accettare. Lev una volta mi aveva messo all’angolo minacciandomi, mentre Alex seduta sul divano assisteva alla scena, chiedendomi quali intenzioni avessi nei confronti del suo obiettivo finale. Era ancora innocente, al tempo, finché le cose non cambiano perché vogliono solo divertirsi a tue spese. Eravamo al Bunker, io e degli amici insopportabili, ma questo c’era e bisognava accontentarsi dato che Alex se ne stava a fumare tutta sola sul divano e Lev era disgustato da ogni contatto sociale che non prevedesse una spesa pari alla risicata mensilità che mi davano ancora i miei. L’avevo vista già prima di entrare, con colleghi di un’età troppo troppo abbondante per non farmi sentire più giovane di quanto non fossi. Coerente ai miei sedici anni di quella sera avevo preferito non salutarla cercando, falsamente, di non farmi rovinare la serata. Saranno state le tre, o giù di lì, perché avevo perso tutti i soldi che mi ero portato offrendo un paio di giri, giusto perché mi divertiva vedere quei ragazzi sboccare e piangere perché usciti dalla loro triste serietà accademica, quando mi si avvicina e mi chiede di portarla a casa. È lontano, le dico, ti metto su un taxi. Ma Lucia mi prende per mano e mi porta fuori dandomi un bacio fra la bocca e la guancia facendo crollare ogni possibile resistenza. In quelle condizioni tutti, poi, ci avrebbero messo molto meno ad accettare. Non ho salutato nessuno e abbiamo preso la strada insieme. Stavamo camminando da un po’ quando Lucia, sbronza persa, mi sbrocca addosso e accelera il passo dicendomi che lo sapeva, che ero io ad averla condizionata, che amava il suo ragazzo, che doveva capirsi e che era un brutto periodo. Almeno è quello che ricordo, perché poco prima della Mole, in un cortiletto tutto curato, ci avevo appena lasciato l’anima. Poi se n’è andata da sola, lasciandomi un pacco di fazzoletti e un pacca sul culo. Da quella sera non ci siamo più parlati, perché negare era già abbastanza pesante.

“Lucia calmati.” Le stava dicendo Marco mentre lei gli piangeva sulla spalla. “Andrà tutto bene.” La tazza fumante sul tavolo era ancora piena mentre il vino andava velocemente esaurendosi.

“No, non succederà, lo sai anche tu come vanno queste cose.”

“È un periodo, sei in una città nuova, è troppo presto, abbiamo raggiunto quello che volevamo, la paura ci sta. Dovevi venire a vivere con me.”

“No Marco, sai che ho bisogno dei miei spazi”

“È una cazzata, vuoi solo buttare tutto nel cesso. Non ce la fai, non ce la fai a essere felice.” Marco si stava innervosendo, non riusciva a sopportarla quando le venivano fuori quelle crisi dal nulla, in quel momento dopo una cena insieme, fra la digestione e il formarsi del clima giusto per scopare. Rendeva tutto sempre così difficile, stava pensando. Era l’astinenza, se ne rendeva conto, ma è quando le proprie forze traballano che se ne sente maggiormente il peso.

“È colpa tua” Gli aveva detto a un tratto Lucia, “io non volevo nemmeno venirci qui, non volevo accettare questo lavoro, non volevo lasciarmi tutto alle spalle.”

“Avresti preferito quella città del cazzo in cui potevi lamentarti perché non c’era mai niente da fare, perché le amiche ti abbandonavano, perché così avresti potuto ammetterti che non era colpa tua se non avevi prospettive, perché laggiù non succede quasi nulla? Ti meriti tutto questo.”

“Smettila” Lucia tremava. “Ti ho visto qui, hai il tuo mondo, beh io no, non posso crearmelo, non ce la faccio. Sei uno stronzo, mi hai costretto a venire qui.”

“Cos’è successo Lucia?” Anche Marco, come Lucia, aveva dovuto dimenticare il passato e cercava di controllarlo il più possibile, come quella mano che gli prudeva, e la bestia che premeva per uscire fuori, che già una volta aveva rischiato di complicare le cose.

“Ho visto una cosa brutta mentre tornavo a casa. C’era la polizia e c’era Andrea, quello del piano di sotto. E tanto sangue.”

“Il mondo ne è pieno, lo sai e noi non dobbiamo farci toccare.”

“Il fatto è che , in qualche modo, avrei voluto essere al suo posto.”

Più il tempo passava, più sentivo freddo e tremavo, fra lo shock e le folate di vento che passavano senza sosta dentro e fuori. Gli occhi mi si svuotavano, così come lo stomaco. Non ero riuscito a trattenere la tensione, come non mi capitava da tanto tempo, e avevo vomitato qualcosa più simile al sangue che al panino del pranzo, nell’angolo dalla chiesa, sotto gli occhi di tutti. Era la sensazione di aver fatto qualcosa, per una volta, e non eravamo preparati. Quando ho rialzato gli occhi c’era la faccia di Alex a guardarmi, sgomenta. “Che cazzo hai fatto Andrea?” Era il peso della responsabilità, o sentirsi deboli dentro e fuori, una predisposizione alla tragicità che mi aveva sempre complicato le cose, ma devo essere svenuto perché quando ho riaperto gli occhi ero seduto sulle scale e sanguinavo pure io, ma non c’erano vittima o colpevoli dentro di me. Non c’era nulla e, almeno quello, mi riconduceva verso casa.

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