Se non si fosse trattato di Veronica Tomassini, non avrei letto un libro autopubblicato. Vodka siberiana, l’ultimo lavoro della scrittrice siracusana, collaboratrice de Il Fatto Quotidiano e finalista al Premio Strega 2019 con Mazzarrona (Miraggi Edizioni), si porta appresso il silenzio degli editori che lo avevano in lettura e si pone sulla scena della narrativa nostrana con impeto e splendore. La scrittrice ha raccontato in questo post sul suo blog la decisione di ricorrere al self publishing: un gesto politico, contestatario. Ma attenzione, non è una presa di posizione che può permettersi chiunque. Veronica Tomassini è stata pubblicata, tra gli altri, da Feltrinelli e Marsilio e ha l’aura di Ágota Kristóf: stessa scrittura minimale e saettante, stesso sguardo esplorativo, stessa conoscenza della miseria e della dannazione, stessa lucidità che a tratti si fa disincanto, conseguenza del suo realismo.
Cronista e vate, anche in questo libro racconta l’emarginazione di uomini arrivati dall’est Europa dopo la caduta del muro di Berlino, sospinti dal nulla verso il nulla. Ma racconta anche di una donna che non riesce a non implicarsi nelle storture delle esistenze degli altri, quasi che, finendoci in mezzo, ritrovi una parte di sé che le sfugge. Anche il professore, un intellettuale malato di schizofrenia, la incinta a invertire la rotta, a afferrare il suo destino e trascinarlo altrove. La donna è la voce narrante, alter ego della scrittrice, proprio come fa La Rochelle nel suo Diario di un delicato: sono lettere, ragionamenti che la protagonista rivolge alla ventenne che è stata. Le parole fendono il tempo, quello che separa la giovinezza dall’età adulta. Proprio la giovinezza, vissuta all’inizio degli anni Novanta in una provincia italiana, è la linea di confine per la protagonista. Noi la conosciamo ragazza, quando avrebbe fatto bene a dare ascolto al professore e alla creaturina, due personaggi illuminati, quasi magici, che intravedono il precipizio su cui la donna si affaccia, dentro e fuori sé stessa. Lavora in un bar, un porto di mare dalle luci soffuse dove suonano pezzi retrò. Certe volte qualcuno mette su Edith Piaf, anche se gli anni Quaranta sono passati da un pezzo e i duetti della chansonnière con Yves Montand al Moulin Rouge sono roba di altri tempi. Il bar è frequentato dal siberiano e da altri uomini e donne, per lo più immigrati e prostitute, personaggi che starebbero bene in una ballata di De André. Sono alcolizzati, puzzano, si radunano in un parco, a volte danno di matto. Il degrado li corrode e li consuma da dentro. La borghesia li tiene a distanza, la nostra ragazza li scansa e li insegue al contempo. Per questo viene bollata e respinta, al pari di quelli a cui tende la mano oltre la linea della comune tollerabilità. Oltre, infatti, ci sono il fango, l’indigenza, un lento trascinarsi.
“Passi i giorni ad aspettare che finiscano. E ogni mattina fai fatica ad alzarti, poggiare i piedi per terra. Pensi al tuo poeta qualche volta. Le parole creano legami incomprensibili, perché non si possono governare, creano complicità devastanti, la tua testolina non riposa mai” (pag. 73).
Attraverso l’esperienza della voce narrante, penetriamo una comunità parallela, un mondo sotterraneo, inestinguibile con la sola forza del perbenismo. Chi ha già letto la Tomassini sa che questa è la sua cifra: la scrittura si fa testimonianza e il reportage si fa letteratura. I personaggi consueti della scrittrice sono i miserabili della storia moderna, quelli che marciscono nelle storture dei confini, delle classi sociali. La donna al centro di questo romanzo epistolare, tutto costruito in seconda persona – quasi un’interrogazione che la voce narrante imbastisce contro sé stessa – è un mezzo per rivelare l’altro, gli invisibili. Nulla di quel che Veronica scrive è inventato, sa esattamente cosa ci mostra, eppure non ci muoviamo nella sfera dell’autofiction come siamo abituati ad intenderla. La sua biografia di carta non invade la scena letteraria: ciò che dirompe nel romanzo è l’esperienza di apolidi senza voce, in un periodo storico preciso ma che potrebbe essere anche attuale. La ghettizzazione dei nullatenenti, dei migranti, che fuggiti da un territorio giungono in un altro, ingrossando sacche di illegalità, sono questioni irrisolte. Si langue ancora ai bordi delle strade, nei pressi delle stazioni delle grandi città, nei quartieri dove si ammassano esseri umani che scappano da drammi epocali (guerre civili, desertificazione, fame). Ma questa è un’altra storia. L’interesse per la letteratura, il cinema, la musica, la storia dell’Est Europa sono una peculiarità di Veronica Tomassini. Questo background slavista si mixa alle folgorazioni giovanili per Noi ragazzi dello zoo di Berlino di Christiane F. e Gli indifferenti di Moravia e costituisce il caposaldo di una espressività peculiare che ha incuriosito tanti, non solo in Italia. Veronica Tomassini non è una scrittrice da intrattenimento, non è una voce rassicurante. È scomoda, urticante ma piena di tenerezza.